Lo Stato fascista, di Sabino Cassese

Lo Stato fascista, di Sabino Cassese

Lo Stato fascista, di Sabino CasseseFrutto del lavoro di didattica e di ricerca nell’ambito dei corsi tenuti presso la Scuola Normale tra il 2009 e il 2010, l’ultimo libro di Sabino Cassese costituisce uno straordinario esempio di puntuale e oggettiva rilettura storica dello Stato fascista, delle sue istituzioni e legislazione, del loro rapporto con l’Italia prima liberale e poi repubblicana, nonché dell’essenza stessa del fenomeno ‘fascismo’. Comprendere quale fu l’anima della macchina istituzionale fascista – sempre meno un regime e sempre più una ‘regia’, protesa sempre meno alla rappresentanza e sempre più alla rappresentatività, nelle parole di Giuseppe Bottai del 1949 – significa, come mostra Cassese in modo magistrale, scardinare l’idea del fascismo come parentesi e netta cesura tra il ventennio e l’Italia inaugurata dalla Costituente – corrispondente più alle esigenze dei contemporanei che alla realtà dei fatti – e rivisitare criticamente il mito storiografico del ‘totalitarismo fascista’. Il fascismo ebbe la specifica peculiarità di racchiudere in sé una serie di elementi contraddittori, che pongono allo storico una duplice sfida: identificarli ed esaminare come essi si siano amalgamati. È l’operazione che l’autore intraprende con successo, con la chiarezza che gli è propria (lo sa bene chi ricorda le pagine de Il mondo nuovo del diritto), nella prima delle due parti in cui il testo è diviso, incentrato sulla domanda ‘Che tipo di Stato era lo Stato fascista?’ e, in particolare, nei primi due capitoli, in cui l’analisi di Cassese prende le mosse dalla constatazione di un paradosso: al di là della sua proclamata natura totalitaria, lo Stato fascista affondò le proprie radici nell’Italia liberale e le sue istituzioni sopravvissero alla caduta del regime stesso. Comprendere quanto realmente fascista fu lo Stato che definiamo fascista significa, nel solco di Guido Melis, riconoscere che gran parte dei materiali normativi che esso utilizzò risaliva al periodo liberale e che le istituzioni fasciste ebbero un carattere composito; significa problematizzare il rapporto, e la continuità spesso trascurata dagli storici, tra lo Stato liberal-autoritario prefascista, lo Stato del ventennio e quello democratico post fascista. Come ricorda l’autore, due terzi delle norme raccolte nel 1954 in un codice delle leggi amministrative risalgono al periodo del regime; molti dei complessi normativi a cavallo tra le due guerre raccolgono addirittura norme prefasciste, per cui la loro codificazione si configura come una transizione graduale e istituzionalizzata tra prefascismo e post fascismo (quella che Cassese definisce ‘la lunga durata delle istituzioni degli anni Trenta’, pp. 23-24). In particolare, la legislazione del ventennio fascista non sostituì quella precedente, ma la integrò, vi si insinuò abilmente, valorizzando gli elementi autoritari in essa già presenti o addirittura riesumando istituti postunitari (i limiti alla libertà di associazione si richiamarono, ad esempio, alla registrazione delle società di mutuo soccorso prevista nel 1886 per ottenere la personalità giuridica). Cassese ricorda a questo proposito come Alfredo Rocco, mente giuridica dello Stato fascista (ministro della Giustizia negli anni ’25-’32), presentando alla Camera dei deputati e al Senato del regno le leggi di difesa dello Stato, evidenziasse l’elemento della continuità statutaria rispetto alla legislazione precedente e mostrasse come l’Italia seguisse l’esempio degli altri paesi europei. Da qui l’osservazione incisiva del nostro autore per cui il regime precedente, lungi dall’essere liberale, aveva ‘struttura autoritaria, temperata da istituti liberali’ (p. 15): cancellare le ‘timide componenti liberali’ e giustapporre ai precedenti nuovi istituti di ispirazione più autoritaria fu la strategia vincente che fece del fascismo una torre sbilenca altresì capace di rimanere in piedi tanto a lungo. Alla continuità delle istituzioni – evidente anche nel Consiglio di Stato, nella sua duplice funzione consultiva e giurisdizionale – il fascismo affiancò l’ulteriore continuità del personale tecnico-politico, evidente nelle carriere di Alberto De Stefani, del già ricordato Rocco, di Alfredo Beneduce (artefice della grande riforma economica resa necessaria dalla crisi economica mondiale). Cassese concentra poi la propria attenzione sulle priorità della politica legislativa fascista, sottolineando come questa non si estendesse a tutti gli ambiti dell’azione statale ma fosse concentrata su alcuni, essenziali ‘punti sensibili’: stampa, associazionismo (politico e sindacale), elezioni locali e nazionali, poteri del governo e del suo capo, fedeltà dei funzionari pubblici, autonomia politica locale. All’interno di tale politica legislativa l’autore sollecita a tenere distinti due piani: da una parte, la legislazione di limitazione e contenimento delle libertà, di svuotamento della democrazia e di centralizzazione del potere; dall’altra, una vasta legislazione razionalizzatrice, di ispirazione autoritaria ma non dichiaratamente fascista. Anche in questi due volti sempre co-implicantisi dell’azione legislativa dello Stato fascista è ravvisabile una continuità con la realtà istituzionale precedente, dato che autore principale della legislazione ‘negativa’ fu, fino al ’32, Rocco (nelle tre vesti di presidente della Camera, di sottosegretario al Tesoro e, infine, di ministro della Giustizia), mentre quella ‘positiva’ è da ricondurre, almeno fino al ’25, a De Stefani. Individuati con chiarezza i punti di innesto attraverso cui il fascismo seppe potenziare gli elementi autoritari propri del regime liberale, Cassese distingue tre fasi per quanto attiene alle strategie con le quali si perpetuò la concentrazione del potere nello Stato-governo: dapprima la conquista dello Stato da parte del movimento fascista nel 1922-’25 per vie legali; successivamente, a partire dal ’25, la conquista del movimento fascista da parte dello Stato attraverso anche la corrispondenza dei titolari di cariche di partito e di cariche pubbliche nel Gran Consiglio del fascismo e l’attribuzione al segretario del Partito nazionale fascista del rango di ministro; infine, la conquista della società civile da parte dello Stato ‘fascistizzato’ per mezzo della soppressione del diritto di voto e della libertà di scelta che vi è insita ai vari livelli e attraverso la sistematica sostituzione delle rappresentanze elettive con rappresentanze organiche. Accanto alla concentrazione del potere, Cassese esamina altri due aspetti centrali nella ‘Costituzione materiale’ dello Stato fascista: la pluralizzazione e la personalizzazione istituzionalizzata del potere. Proprio su questi temi Cassese scrive alcune delle pagine più belle di tutto il testo. La tendenza del regime a pluralizzarsi si evince, per lo studioso, dal riproporsi, nell’ambito delle corporazioni, dei conflitti allora denominati di classe; dallo sdoppiamento dello Stato attraverso l’istituzione di organi speciali (accanto alla polizia appaiono la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale e il Servizio speciale di investigazione politica; accanto all’ordine giudiziario, il Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato; nell’ordine giudiziario, la magistratura del lavoro); dal fenomeno dell’entificazione e dall’emergere di ‘amministrazioni parallele’. Pluralizzazione del centro e unitarietà dello Stato, tuttavia, seppero coesistere in modo armonico nelle istituzioni fasciste, come rilevò lo stesso Bottai nel suo discorso al Senato del 15 marzo 1930: tra gli organi dello Stato fascista, dominato dal principio dell’unità organica, si distribuiscono le competenze, ma non i fini e tantomeno gli interessi. Con le parole di Bottai riportate da Cassese: ‘Porre, oggi, una questione di rapporti tra il Consiglio e il Parlamento e intravedere addirittura una possibilità di contrasti, d’interferenze, di conflitti e di battaglie, significa vedere, ancora, lo Stato secondo gli schemi demo-liberali, lo Stato, cioè, inorganico, entro cui le istituzioni non conoscono che rapporti di mero vicinato, prive di ogni principio di coesione e di coordinamento’ (p. 19, n. 17). Di qui, come rileva l’autore, il paradosso dello Stato fascista: monolitico e pluralizzato al tempo stesso, intenzionato a valorizzare e a mantenere aperto il circuito Stato-società in vista della creazione del consenso ma anche proteso verso la repressione delle fisiologiche tendenze centrifughe per mezzo della moltiplicazione di sistemi di controllo dell’unitarietà di indirizzo politico e la presenza di una volontà unica al vertice. Su questo ultimo punto – la personalizzazione istituzionalizzata del potere – il fascismo mise in atto una strategia sapiente, non lasciando il potere personalizzato al di fuori della sfera del diritto (come invece accade nelle forme cesaristiche) né facendolo dipendere soltanto dalle doti carismatiche del capo. Esso, al contrario, fu codificato, riconosciuto dall’ordinamento, attraverso l’apposita legge del ’25 con la quale il ‘capo del governo duce del fascismo’ veniva sottratto alla sanzione della sfiducia parlamentare e sottoposto esclusivamente alla teorica potestà regia di revoca. I ministri stessi, nominati da Mussolini, altro non furono che esecutori della sua volontà personale, e il cumulo di cariche e i frequenti cambi del personale politico furono il duplice strumento del quale egli si servì per tenere in equilibrio (grazie anche a due importanti apparati quali la Segreteria particolare del Duce e gli uffici della Presidenza del Consiglio) le diverse componenti dell’edificio fascista. Il quadro dell’azione legislativa e istituzionale che Cassese delinea nella prima parte del libro, e che ritorna anche nel capitolo finale dedicato allo Stato fascista corporativo e al corporativismo come surrogato della rappresentanza politica, è dunque particolarmente complesso e contribuisce a decostruire, nel solco della Arendt, la valenza euristica della categoria di ‘totalitarismo’ (per quanto imperfetto) che spesso la storiografia ha voluto applicare all’esperienza del ventennio (a partire da Giovanni Amendola nel 1923). È stato Emilio Gentile, a partire dal 1985, a riproporre la tesi del fascismo come esperimento totalitario o, meglio, come cesarismo totalitario; alle tesi gentiliane, recuperate recentemente anche da Dormagen nelle proprie ricerche sul personale amministrativo statale e parastatale fascista, si è opposto Guido Melis, che ha concentrato la propria attenzione sui materiali normativi adoperati dallo Stato fascista. Su questo secondo fronte si schiera Cassese, il quale, nel ribadire il carattere composito delle istituzioni degli anni Trenta, evidenzia come il fascismo non ebbe una sua ‘teoria’, per quanto dichiarasse di esserne munito: la prese a prestito da un liberale-hegeliano come Giovanni Gentile e da un nazionalista-statalista come Alfredo Rocco; inoltre, il fascismo stesso ebbe componenti e anime diverse (demagogico-popolare, autoritaria, totalitaria), ragione per la quale, più che parlare di ‘Stato fascista’, appare più opportuno usare il plurale e riferirsi allo Stato della prima fase (1922-’25, caratterizzato dalla rottura della legalità statuaria con i provvedimenti di difesa dello Stato e le ‘leggi fascistissime’) e allo Stato fascista della maturità (’30-’43, segnato dall’organizzazione dello Stato corporativo, dalla reazione alla grande crisi economica mondiale, dalle leggi razziali). Per questo lo Stato organico ebbe forza e debolezza insieme: la sua azione legislativo-istituzionale, concentrata su poche, cruciali materie (relative soprattutto alla società civile e allo Stato-persona), si insinuò nell’ordine giuridico preesistente, in modo da potenziarne gli elementi autoritari; aumentò l’influenza dello Stato sulla società civile, ma al tempo stesso non sottrasse del tutto lo Stato a una certa accountability sociale; eliminò, nelle parole di Mussolini, l”elezionalismo’, ma moltiplicò le organizzazioni statali-sociali (corporative, giovanili, paramilitari, culturali, dopolavoristiche). Soprattutto, sul piano macropolitico, dopo aver utilizzato il movimento fascista come strumento di conquista dello Stato, si servì di quest’ultimo come mezzo di normalizzazione del primo, integrando Stato e movimento in direzione di una definitiva istituzionalizzazione del partito. Al corporativismo come surrogato della rappresentanza politica sono dedicate le pagine conclusive del libro, in cui Cassese non si dedica a una cronistoria dell’esperimento corporativo proprio del fascismo (per cui rinvia ai lavori di Maier, Schmitter e Gagliardi), ma a una disamina dei suoi caratteri essenziali, nel tentativo di individuarne i collegamenti e le implicazioni sia con la più ampia vicenda della crisi dello Stato, sia con l’affermarsi di una molteplicità riconosciuta (per quanto non pluralistica), dominata da pratiche concertative. Egli segue, cioè, la proposta metodologica di Bernardo Sordi di guardare al corporativismo fascista come a un ‘rivelatore di complessità’. In particolare, l’autore tenta, con successo, di entrare a fondo nei meccanismi interni dello Stato fascista, per cogliere appieno il nesso tra economia e politica, tra autogoverno delle categorie e sostituzione della rappresentanza politica con quella corporativa, evidenziando il legame tra le idee e gli istituti di quell’epoca di inquietudini e di confusione in cui grandi speranze venivano riposte nell’avvento di una ‘nuova civiltà politica’. Del corporativismo fascista Cassese analizza i tre livelli – quello strettamente sindacale, quello più propriamente corporativo e, infine, quello politico -, sottolineando il processo di ‘statizzazione’ dei sindacati e il moto contraddittorio che anima il sindacato fascista, da una parte riconosciuto nel suo potere di rappresentare tutti i lavoratori, dall’altro incorporato negli ingranaggi dello Stato (nelle parole di Gramsci, il tentativo di ‘incorporare gli organismi di resistenza economica negli ingranaggi dello Stato borghese’, p. 103). Si sofferma sulle organizzazioni corporative satelliti, sul proliferare, cioè, degli ‘enti di privilegio’, secondo la felice espressione coniata dall’economista Demaria (p. 125), quale caratteristica saliente dell’organizzazione corporativa delle industrie e dei commerci nel periodo fascista. Ma è soprattutto sul piano politico e sul tema, cruciale in questi anni (si pensi a Leibholz), della rappresentanza politica che Cassese scrive le pagine più dense di questo straordinario contributo pluriprospettico. Il regime fascista, infatti, nel respingere la ‘sovranità suffragistica’, affermò esplicitamente che il sistema parlamentare non costituiva la sola forma di rappresentanza. Al contrario: viziato alla base da due inconvenienti ad esso connaturati – la ratificazione di scelte fatte dalle segreterie di partito e la ‘localizzazione elettorale’ che circoscrive il rapporto elettore/eletto al collegio – esso è incapace di garantire quel contatto ‘pieno e assoluto’ fra masse e Stato che soltanto la rappresentanza corporativa può garantire, sostituendo al cittadino elettore il cittadino-produttore. Mentre la rappresentanza politica è uno actu, quella corporativa è continua, costante, mai istantanea. Su questo punto Cassese evidenzia i due tempi della strategia del regime fascista: dapprima attraverso la legge del 17 maggio 1928, n. 1019 (‘Riforma della rappresentanza politica’), secondo cui, ex. art. 1, ‘tutto il Regno forma un collegio unico nazionale’; in seconda battuta, tramite la legge 19 gennaio 1939, n. 129, con cui si istituiva la Camera dei fasci e delle corporazioni (in sostituzione della Camera dei deputati) e che Santi Romano, nell’illustrarla in qualità di senatore nella relazione della commissione senatoriale, elogiò. ‘Vera rappresentanza’ – egli dichiarò, come Cassese rievoca – ‘non può aversi finché l’assemblea che ha il compito di attuarla non rispecchi nella sua stessa struttura, anziché casuali, effimeri e contingenti raggruppamenti di individui, un’istituzionale e solida organizzazione sociale’ (p. 133). Come notò Sergio Pannunzio: ‘il popolo è attivo e sovrano in virtù della sua appartenenza al partito e alle organizzazioni sindacali’ (pp. 133-134). Rimanevano però insolute e anzi ignorate nelle considerazioni teorico-politiche di Pannunzio e di Volpicelli due questioni assai rilevanti quali quella dei non iscritti al partito né al sindacato, e l’elezione dei rappresentanti del partito e sindacali, alla base. Due vulnera che, a giudizio di Cassese, depotenziarono fortemente la costruzione concettuale del ‘contatto pieno e assoluto tra le masse e lo Stato’ e che, in ultima istanza, fecero della Camera dei fasci e delle corporazioni nient’altro che un gigante dai piedi di argilla.

David Ragazzoni