Mussolini e il Papa, la Chiesa durante il Fascismo

L’idillio tra la Chiesa e il fascismo ebbe una storia travagliata. Ma servì a entrambi: alla Santa Sede per rafforzare la sua presenza nella società, allo Stato in camicia nera per “svaticanizzare” l’Italia.

Una circolare del 1923 che dispone l'esposizione del crocifisso e di immagini del Redentore nelle aule scolastiche.
Una circolare del 1923 che dispone l’esposizione del crocifisso e di immagini del Redentore nelle aule scolastiche.

Il fascismo fu un movimento che mirò a un radicale cambiamento politico e culturale dell’Italia. Il suo fine era la costruzione di un’organizzazione inedita del sistema politico e del sistema sociale, fondata sul primato della politica e dello Stato e la subordinazione del privato al pubblico. Già quand’era insegnante elementare (1908) ad Oneglia, in Liguria, Mussolini, ateo professo, non faceva mistero del suo anticlericalismo. Sulle pagine del giornale socialista La Lima, aveva la consuetudine di attaccare apertamente le gerarchie ecclesiastiche affermando, tra l’altro, che i preti «non sono che dei gendarmi neri al servizio del capitalismo». A coronamento di tutto ciò, lo pseudonimo con cui firmava i suoi articoli: “Vero Eretico”. Anche quando passò al settimanale di Trento L’Avvenire del Lavoratore, il suo anticlericalismo non cambiò di tono. Sul Popolo d’Italia, giornale da lui fondato nel 1914, oltre ad attaccare la Chiesa, si occupava anche di vicende sospette legate alla religione, come quella di Rosa Broll, la «santa di Susà di Pergine», che, tra un miracolo e l’altro, si “dedicava” al sacerdote del paese. Proprio sulle pagine del Popolo d’Italia, Mussolini diede sfogo a tutto il suo anticlericalismo. Il 1° gennaio 1920, arrivò a scrivere:

«Due religioni si contendono oggi il dominio degli spiriti e del mondo: la nera e la rossa. Da due Vaticani partono, oggi, l’encicliche: da quello di Roma e da quello di Mosca. Noi siamo gli eretici di queste due religioni. Noi soli, immuni da contagio. L’esito di questa battaglia è, per noi, d’ordine secondario. Per noi il combattimento ha il premio in sé, anche se non sia coronato dalla vittoria».

Chiaramente questo anticlericalismo fu portato pari pari anche nel manifesto dei Fasci. Il programma fascista, infatti, sin dal giugno 1919, prevedeva lo “svaticanamento” dell’Italia, attraverso il sequestro di tutti i beni delle congregazioni religiose, fino all’abolizione delle guarentigie seguita, come scrisse lo stesso Mussolini sul Popolo d’Italia il 18 novembre 1919 «dal fermo invito a Sua Santità di sloggiare da Roma». L’opera di “fascistizzazione” dell’Italia doveva però fare i conti con il gran peso sociale e culturale della Chiesa cattolica. In un Paese in cui la maggioranza della popolazione si dichiarava cattolica non si poteva non trovare un modus vivendi con essa. Mussolini, determinato a conquistare il potere, fu conscio che, pur avendo circa trecentomila iscritti, per farlo doveva rassicurare ogni componente della società italiana, compresa quella cattolica largamente maggioritaria. Egli capì che per conquistare il voto dei cattolici occorreva rassicurare la Chiesa e la gerarchia ecclesiastica. Così, la consapevolezza che solo l’appoggio, o almeno l’assenza d’ostilità, da parte dei cattolici avrebbe contribuito al suo disegno politico di perpetuarsi, fecero cambiare idea al futuro duce d’Italia. In un discorso tenuto alla Camera il 21 giugno del 1921, Mussolini inaugurò il nuovo programma fascista: nella sua relazione rivendicò i punti di comunanza col Partito Popolare di Sturzo, mentre, sulla questione vaticana, non esitò ad affermare che

«l’unica idea universale che oggi esista a Roma, è quella che si irradia dal Vaticano».

Anche nei suoi discorsi pubblici, il futuro duce d’Italia divenne più disponibile verso la Chiesa. A Vicenza, ad esempio, il 23 settembre 1924, arrivò a dire:

«Un popolo non può divenire grande e potente, conscio dei suoi destini, se non si accosta alla religione e non la considera come un elemento essenziale della sua vita privata e pubblica».

Ecco dunque che il programma del suo partito, a partire dal 1921, assunse inattese rivendicazioni. Le nuove “Linee programmatiche del Partito Fascista” furono rese pubbliche attraverso le pagine del Popolo d’Italia, il 9 ottobre 1921. Il nuovo statuto del partito, elaborato dallo stesso Mussolini, abbandonò i postulati anticlericali dei Fasci del 1919: adesso veniva sostenuto il principio della piena libertà della Chiesa cattolica nell’esercizio del suo ministero spirituale, la volontà di risolvere pacificamente il dissidio territoriale con la Santa Sede. Anzi, il nuovo programma fascista dichiarava che in caso di rinuncia allo ristabilimento del potere temporale, lo Stato avrebbe fornito alla Chiesa e al papa aiuti tangibili, agevolazioni materiali per scuole, chiese, ospedali o «altro che una potenza profana ha a sua disposizione», in quanto lo sviluppo del cattolicesimo nel mondo deve essere «di un interesse e di un orgoglio» anche per gli italiani. Nelle “Linee programmatiche del Partito Fascista”, tuttavia, si prospettava anche la conservazione ed il «rafforzamento dell’autorità dello Stato per tutto ciò che concerne eventuali inframettenze del clero nella vita civile», dichiarando che nella politica ecclesiastica e religiosa il fascismo avrebbe preteso il rispetto di tutte le fedi. In questo senso si orientò l’assemblea del Partito Fascista riunita in congresso a Roma dal 7 al 10 novembre 1921. Pur asserendo la necessità di imporre il rispetto di tutte le fedi, in virtù del fatto che per il fascismo il fatto religioso rientra nel campo della sfera individuale, Mussolini volle ribadire il concetto di utilità del cattolicesimo come elemento necessario per l’espansione nazionale. Tuttavia,

«lo Stato – ribadì – è sovrano in ogni campo dell’attività nazionale. Prima di togliere la legge delle Guarentigie occorrono cautele. La diplomazia vaticana è più abile di quella della consulta».

Il programma del PNF nell’ambito dei rapporti tra Stato e Chiesa divenne questo:

«Lo Stato è sovrano: e tale sovranità non deve essere intaccata o sminuita dalla Chiesa alla quale si deve garantire la più ampia libertà di esercizio del suo ministero spirituale. […] Lo Stato deve favorire lo sviluppo della Nazione non monopolizzandolo, ma promuovendo ogni opera intesa al progresso etico, intellettuale, religioso […] della vita nazionale».

Le nuove opinioni di Mussolini si fecero ancor più manifeste in occasione della morte di papa Benedetto XV. Sul Popolo d’Italia del 22 gennaio 1922, Mussolini, ricordando papa Giacomo Della Chiesa, esaltò la missione universale della Chiesa cattolica e «la rinascita del sentimento religioso proclamandone il potere d’evasione per le masse tormentate e miserabili».

1870, la breccia di Porta Pia segnò la fine del potere temporale
1870, la breccia di Porta Pia segnò la fine del potere temporale

Il carattere antisocialista e avverso allo Stato liberale del fascismo, indusse alcuni ambienti cattolici a simpatizzare per Mussolini. Questo perché si riteneva il politico in grado di combattere efficacemente questi due grandi avversari della Chiesa. Tuttavia, al suo interno, il mondo cattolico era spaccato: da una parte la gerarchia della Chiesa, tra cui il cardinale Gasparri, favorevole al fascismo perché ansiosa di porre termine alla “Questione romana”, dall’altra cattolici e una parte del clero assolutamente contrari a collaborazioni con questo partito per il suo carattere violento e segretamente anticlericale. Da parte sua, papa Pio XI, non fu pregiudizialmente contrario al fascismo poiché lo vedeva una forza per il mantenimento dell’ordine, anche se ne temeva alcune sue caratteristiche e sviluppi. Ecco dunque il pontefice adottare un atteggiamento sommessamente favorevole a Mussolini sia attribuendo ai più bassi livelli gerarchici la responsabilità delle aggressioni fasciste a organizzazione ed esponenti cattolici, sia limitando le proteste contro la violenza fascista solo agli episodi che coinvolgevano i cattolici. Anche in seguito all’omicidio dell’arciprete antifascista di Argenta, don Giovanni Minzoni, ad opera di squadristi, non protestò ufficialmente come avrebbe dovuto, preoccupato di mantenere buoni rapporti con il governo fascista. Per le altre vittime dello squadrismo fascista il silenzio fu totale. Mentre il clima politico italiano si faceva teso, con un Partito Popolare sempre più spaccato al suo interno, il 19 ottobre 1922 la Santa Sede, tramite la Segreteria di Stato, diramò una circolare ai vescovi italiani nella quale si dichiarava estranea al Partito Popolare Italiano e invitava il clero a non fare politica, tenendosi assolutamente al di fuori dei partiti e delle competizioni politiche: fu senza ombra di dubbio un modo elegante per dissociare la responsabilità del clero e della Chiesa da quella del Partito Popolare e per mostrare un certo possibilismo nei riguardi del fascismo. Il giorno della marcia su Roma (28 ottobre 1922) papa Pio XI rese nota una lettera nella quale invitava alla «pacificazione degli animi e dei cuori» e a sacrificare i propri interessi in nome del bene pubblico, ispirandosi ai princìpi cristiani e a sentimenti di carità. Il giorno seguente L’Osservatore Romano appoggiò la decisione di Vittorio Emanuele III di conferire a Mussolini l’incarico di formare un Governo, dichiarandosi non contrario a collaborazioni col nuovo Governo e ricordando che papa Benedetto XV non aveva mai riconosciuto il Partito Popolare di Sturzo. Il 30 ottobre Mussolini presentò al re il nuovo Governo e, per rassicurare Chiesa e ottenere l’appoggio dei cattolici, nominò quattro sottosegretari e due ministri – Tangorra al Tesoro e Cavazzoni al Lavoro-, attingendo proprio al Partito Popolare. Questo permise a Mussolini di mettere in atto il suo piano volto progressivamente a eliminare il Partito Popolare come possibile tramite tra la Santa Sede e lo Stato, dimostrando che esso era un inutile portavoce delle istanze dei cattolici e della Chiesa, inducendo la Santa Sede a scoprire quali vantaggi che le potevano derivare dal sostegno di un governo forte come quello fascista. Nel suo discorso di insediamento del 16 novembre, Mussolini arrivò ad invocare l’Assistenza divina per svolgere il proprio compito. Appena formato il nuovo governo, la Santa Sede, tramite canali diplomatici, chiese di essere messa a conoscenza dei «propositi politici del fascismo verso la Chiesa»; in particolare il cardinal Gasparri fece sapere che il pontefice avrebbe gradito il ripristino della festa di San Giuseppe e, soprattutto, del Crocefisso in scuole, tribunali e possibilmente in tutti i luoghi pubblici.

La prima pagina dei Patti Lateranensi
La prima pagina dei Patti Lateranensi

A partire dal famoso “Discorso del bivacco” fatto da Mussolini alla Camera il 16 novembre 1922, furono compiuti una serie di atti che suscitarono riconoscenza e simpatia negli ambienti cattolici ed ecclesiastici. Fu ricollocato il crocefisso nelle aule scolastiche e via via in tutti i luoghi pubblici, furono disposte norme per rendere obbligatorio l’insegnamento del catechismo nelle scuole elementari, furono disposti stanziamenti per la ricostruzione delle chiese danneggiate dalla guerra, le tasse scolastiche delle scuole private furono equiparate a quelle delle scuole pubbliche. Nello stesso tempo il ministro della Pubblica Istruzione Gentile dichiarò l’intento di rendere obbligatorio nelle scuole elementari l’insegnamento religioso, rendendolo il principale fondamento dell’educazione pubblica e della «restaurazione dello spirito italiano»: tali propositi furono poi resi operanti dalla riforma Gentile del 1923, la quale introdusse anche l’esame di Stato, che era stata un’altra importante richiesta dei cattolici e dello stesso Partito Popolare. Quest’ultimo provvedimento risultò la premessa di una notevole espansione delle scuole private confessionali. Ma se da un lato vi era soddisfazione per l’introduzione dell’esame di Stato e dell’insegnamento della religione, nacquero preoccupazioni per l’idea filosofica che guidava la riforma, per i contenuti dei programmi d’esame e per la tendenza all’accentramento e alla monopolizzazione del sistema scolastico da parte delle Stato. Nel complesso, però, la riforma venne valutata dalla gerarchia della Chiesa e dai cattolici come un primo passo in direzione del traguardo, che era ancora lontano, della libertà d’insegnamento. Oltre alla riforma scolastica furono attuati altri provvedimenti specifici in favore della Chiesa: fu effettuato il salvataggio da una grave crisi del Banco di Roma, che sosteneva finanziariamente il cartello dei giornali cattolici, fu abolita la legge sulla nominatività dei titoli, fu pure accordata ai procuratori generali d’appello la possibilità di autorizzare lasciti e acquisti di beni immobili degli enti ecclesiastici. Il governo provvide ancora ad accordare agli ecclesiastici ritardi ed esoneri dal servizio militare, ad adeguare il calendario civile al calendario religioso. Importamene fu altresì l’avversione dichiarata al divorzio e l’impegno da parte del governo a garantire l’indissolubilità del matrimonio. Accanto a questi atti, che senza dubbio indussero i cattolici ad avvicinarsi di più al fascismo, ricordiamo tutti quei provvedimenti presi dal governo per tutelare “la moralità pubblica”: dalla lotta al gioco d’azzardo alla pornografia. Nel febbraio del 1923, da parte del Gran Consiglio del Fascismo, arrivò anche la denuncia di incompatibilità tra fascismo e massoneria. Indubbiamente tutti questi provvedimenti crearono un clima favorevole da parte cattolica: la stampa di orientamento clericale li definì come atti rivolti al “risorgimento civile” della società italiana. Conquistato il potere, Mussolini iniziò a lavorare per svuotare definitivamente il Partito Popolare delle simpatie della Chiesa, rassicurando le gerarchie ecclesiastiche che il nuovo governo avrebbe assunto tra i suoi obiettivi quello della valorizzazione del cattolicesimo e della Chiesa. Infatti, i primi atti politici di Mussolini presidente del Consiglio – alla guida di un governo in cui c’erano anche i popolari – fecero progressivamente accentuare, all’interno del Vaticano e del mondo cattolico, le tendenze favorevoli al fascismo. Particolare importanza ebbe, tra i primi atti politici di Benito Mussolini, il “Progetto per la riforma della legislazione ecclesiastica”, del dicembre 1925. Tale atto, comunque, non poté essere tradotto in legge dello Stato per l’opposizione di papa Pio, il quale non ammetteva che lo Stato legiferasse con un atto unilaterale su materie che, in linea di principio, appartenevano all’autorità ecclesiastica. Il progetto di legge mirava ad un completo riordinamento della proprietà ecclesiastica così come era stabilito nell’articolo 18 della legge delle Guarentigie. Molti esponenti di spicco del Partito Popolare – Paolo Mattei Gentili, Stefano Cavazzoni, Egilberto Martire – contestarono la gestione Sturzo del partito e diedero la propria adesione alla lista fascista nelle elezioni del 1924. Già prima della “marcia su Roma”, diversi religiosi, fra cui i cardinali Pignatelli, Vannutelli, Lafontaine e Tucci, avevano simpatizzato apertamente per il fascismo; altri ecclesiastici però non credettero nella buona fede del Duce.

Nel gennaio del 1923, in un incontro segreto tra Mussolini e il segretario di Stato vaticano Gasparri, si compivano i primi passi per la ricerca di un modus vivendi tra la Santa Sede e lo Stato italiano. Nell’incontro, che si tenne in casa del senatore Carlo Cantucci – presidente del Banco di Roma – probabilmente fu scelto anche colui che avrebbe fatto da intermediario segreto fra Mussolini e il Vaticano, ovvero il gesuita Pietro Tacchi Venturi. Mussolini voleva in un primo momento risolvere la questione romana attraverso una modifica alla legge delle Guarentigie, proprio per non attirarsi l’inimicizia di vaste frange del fascismo più intransigente, apertamente anticlericale. Il consolidamento del regime e l’instaurazione della dittatura fascista – fra il 1925 e il 1926 – assieme alla definitiva liquidazione del Partito Popolare, trovò vasto consenso nelle gerarchie ecclesiastiche, nella maggior parte del clero e dei cattolici, nella stampa ufficiale. Le vicende del Partito Popolare dimostrarono come l’atteggiamento della Chiesa condizionasse autorevolmente l’autonomia del partito stesso. Quando l’appoggio del clero venne a mancare, la dissoluzione dei popolari diventò inevitabile. Nell’agosto del 1926 iniziarono le trattative bilaterali tra la Santa Sede e l’Italia. Il pontefice accettò di trattare con i fascisti solo quando apparve chiaro che non di atto unilaterale si sarebbe trattato, ma di un atto bilaterale fra due sovranità egualmente perfette, seppur gerarchicamente diverse. Nella prima parte delle trattative del 1926 i rappresentanti dell’Italia e della Santa Sede erano rispettivamente il consigliere di Stato Domenico Barone e l’avvocato concistoriale Francesco Pacelli; nell’ultima fase delle trattative subentrarono Mussolini e il segretario di Stato vaticano Gasparri. Fin dai primi incontri informali, il pontefice aveva dettato precise condizioni da proporre alla controparte: al trattato, volto alla definitiva sistemazione della questione romana, iniziata con la, e, quindi, alla sistemazione dello status internazionale del Vaticano e del suo governo, si doveva accompagnare un concordato che regolasse i rapporti di politica ecclesiastica fra lo Stato e la Chiesa; si chiedeva, in particolare, il conferimento di valore di rito civile al matrimonio religioso. Per papa Pio i due atti erano inseparabili, non si poteva realizzare l’uno senza l’altro, secondo il principio del simul stabuntsimul cadent, cui i vertici del Vaticano non avrebbero mai rinunciato. Durante le trattative, un primo schema di trattato fu firmato il 24 novembre 1926; altri due schemi erano pronti nel febbraio 1927. Ulteriori trattative si svolsero nella residenza romana del cardinale Granito di Belmonte. Durante i lavori diplomatici fu sottratta alla sovranità pontificia villa Pamphili, dove il pontefice avrebbe voluto collocare le rappresentanze diplomatiche accreditate dalla Santa Sede. Dopo tre anni di trattative si arrivò agli accordi dell’11 febbraio 1929. Le trattative subirono una prima interruzione dal giugno 1927 al gennaio 1929; una seconda interruzione si registrò dall’aprile al maggio 1928; queste interruzioni erano dovute a contenziosi sulla regolamentazione del diritto della Chiesa, all’organizzazione del laicato cattolico, sull’educazione della gioventù e sulla questione economica. Il Vaticano, che in passato non aveva accettato la legge delle Guarentigie, reclamava tutti gli arretrati di quei 3.225.000 lire annui previsti dalla stessa legge, ovviamente con i dovuti interessi. Il pontefice richiedeva quindi la bella somma di più di tre miliardi; il duce, da parte sua, non intendeva dare più di due miliardi. La trattativa si concluse con la cifra di un miliardo in titoli al portatore, settecentocinquanta milioni in contanti e una serie di vantaggi fiscali. L’altro contenzioso venne a galla in seguito ad un decreto legge del 1928 che impose a tutte le organizzazioni giovanili di inglobarsi nell’Opera Nazionale Balilla. Mussolini affermò che il decreto si riferiva solamente ai ventottomila boy-scout, in quanto questa organizzazione era considerata dal regime di tipo semi-militare. Dissipate queste controversie, la Santa Sede di Pio XI arrivò finalmente alla firma dei patti con l’Italia fascista di Mussolini.

Mussolini e il cardinale Gasparri posano per la foto ufficiale dopo la firma dei Patti
Mussolini e il cardinale Gasparri posano per la foto ufficiale dopo la firma dei Patti

L’accordo, ovvero i Patti Lateranensi, consisteva di un trattato, di una convenzione finanziaria e di un concordato. I Patti del Laterano furono resi esecutivi in Italia con la legge 27 maggio 1929, n. 810, e pubblicati il 5 giugno nella Gazzetta Ufficiale. Da parte Vaticana, furono ratificati il 7 giugno dello stesso anno, e pubblicati nel fascicolo VI degli Acta Apostolicae Sedis (XXI) 1929, il 7 giugno stesso. Il Trattato riconosceva alla Santa Sede la sovranità come Stato autonomo e indipendente su un territorio di appena 0,44 kmq, denominato Città del Vaticano (si preferì questa denominazione dopo che si erano scartate l’ipotesi di chiamarlo “Stato della Santa Sede” o “Città libera del Papa”); la Santa Sede riconosceva invece l’Italia con Roma capitale, mettendo così fine alla questione romana. La Convenzione finanziaria impegnava il governo italiano a versare alla Santa Sede la cifra di un miliardo e settecentocinquanta milioni di lire; tale somma rappresentava anche il risarcimento per i danni da essa subiti in seguito alla perdita dello Stato temporale. Il Concordato, infine, regolava le condizioni della Chiesa e della religione in Italia. In esso si riaffermava la religione cattolica come l’unica religione di Stato; dava disposizioni tendenti a dare al pubblico insegnamento un carattere confessionale che andava oltre la regolamentazione specifica dell’insegnamento cattolico (l’art. 36 del concordato recitava: lo Stato considera la religione cattolica «fondamento e coronamento dell’istruzione»); riattivava la giurisdizione ecclesiastica in materia di diritto di famiglia; tutelava, anche con agevolazioni e sostegni finanziari, le strutture ecclesiastiche; riconosceva infine l’esistenza dell’Azione Cattolica come una associazione al di fuori di ogni partito e direttamente dipendente dalla gerarchia ecclesiastica. Ha scritto Pier Giovanni Caron nel secondo volume del suo Corso di storia dei rapporti fra Stato e Chiesa:

«I capisaldi del Concordato sono i seguenti: a) ritorno ad un regime «confessionale» analogo ai regimi giurisdizionalisti propri dell’Età della Monarchia Assoluta; b) assicurazione del libero esercizio del potere spirituale della Chiesa, del libero e pubblico esercizio del culto, nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica; c) determinazione di forme di particolare favore o riguardo per persone, funzioni, enti ecclesiastici; d) rilievo civile di funzioni ecclesiastiche».

All’indomani della firma dei Patti Lateranenensi, Pio XI definì Mussolini con queste parole:

«Siamo stati nobilmente aiutati dall’altra parte. Forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e venerandi quanto più brutti e deformi».

E’ chiaro che il pontefice volle ribadire che Mussolini, a differenza dei precedenti governi, non aveva i pregiudizi e questo aveva portato finalmente alla soluzione della questione romana.

BIBLIOGRAFIA

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  • «La Chiesa e il fascismo durante il pontificato di Pio XI», di P. Scoppola, in Il regime fascista, a cura di Acquarone e Vernassa – Il Mulino, Bologna, 1974
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  • Storia del fascismo, di G. Carocci – Newton Compton, Roma, 1994
  • Fascisti. Gli italiani di Mussolini, il regime degli italiani, di G.B. Guerri – Mondatori, Milano, 1995
  • Chiesa e Cattolicesimo in Italia (1945-2000), di M. Guasco M. – Edizioni Dehoniane, Bologna, 2001
  • Stato e Chiesa in Italia dalla conciliazione alla riconciliazione (1929-1931), di M. Casella M. – Congedo Editore, Lecce, 2005
  • Pio XI. Il papa dei Patti lateranensi e dell’opposizione ai totalitarismi, di Y. Chiron – San Paolo, Cinisello Balsamo, 2006