Incuneandosi nell’abitato, Tullio Crali – 1939

Tullio CraliIl quadro che vogliamo prendere oggi in considerazione è il celebre Incuneandosi nell’abitato (noto anche come In tuffo sulla cittàdel pittore futurista Tullio Crali, olio su tela di cm. 130 x 155, dipinto nel 1939 e conservato presso il MART, Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto.

Sostenitore e diffusore delle tendenze dell’Aeropittura, Crali assume a dogma la teoria della pittura dinamica e, appassionato di volo egli stesso, dipinge anche questa visione dall’alto, come numerose altre (tra le quali Vuoto d’aria, Paesaggio alpino, Raffiche di paesaggio e Sintesi Isole Pelagie), per suscitare «sensazioni aeree» secondo intendimenti descrittivi (la felice definizione è di Elda Fezzi. in Le Muse, Novara, Ist. Geogr. De Agostini, 1965, vol. III, p. 490).

Il quadro Incuneandosi nell’abitato raffigura  l’interno di una carlinga d’aereo, con il pilota, di spalle, seduto ai comandi e quasi un tutt’uno con essi ; non solo il vetro anteriore, ma anche quelli laterali lasciano vedere l’esterno, e così pure – stranamente – il soffitto dell’abitacolo. E la visione esterna è, al tempo stesso, affascinante e terrificante: un paesaggio urbano fittamente edificato, con un vortice di torri e grattacieli che balzano verso l’alto o, meglio, che sembrano risucchiati nel volo dell’aeroplano.

Si tratta di un volo in picchiata, che trasmette un’impressione quasi suicida: è come se il pilota, affascinato da quella incredibile prospettiva di edifici, visti da un’angolazione pressoché perpendicolare, si stesse letteralmente tuffando verso il suolo, attratto da una sorta di cupio dissolvi (l’altro titolo con cui l’opera è nota, infatti, è proprio In tuffo sulla città). È evidente che, per evitare l’impatto disastroso, egli dovrà effettuare una cabrata quasi impossibile; ma, intanto, sembra che egli stia giocando con la morte, per vedere fino a quanto potrà continuare la picchiata, prima di essere costretto a cabrare.

In quest’opera, dunque, Tullio Crali unisce i due temi a lui più cari e li fonde con straordinaria capacità di suggestione: quello futurista della città ultramoderna, visionaria e titanica, con echi dell’architettura di Sant’Elia, ma non certo senza suggestioni della pittura espressionista (si pensi, in particolare, ai paesaggi urbani di E. L. Kirchner) e, più ancora, di quella cubista (La Torre Eiffel di R. Delaunay); e quello dell’aeropittura. La fusione dei due temi è realizzata mediante la prospettiva, in cui le intelaiature meccaniche della carlinga sottolineano gli spigoli dei grattacieli sottostanti, originandosi da un medesimo punto di fuga; mentre il contrasto è affidato al gioco cromatico dei marrone scuro in primo piano, nell’abitacolo dell’aereo, e dei gialli della città che sembra erompere dal basso e venire incontro all’osservatore; anzi, che sembra precipitarsi contro di lui.

La totale trasparenza dei vetri crea, al tempo sesso, un effetto scenografico di grande immediatezza e forza plastica, come se l’aereo entrasse nell’abitato o come se l’abitato entrasse nella carlinga. L’impressione generale non è tanto quella di uno schianto e un disastro imminente, ma – a dispetto d tutte le leggi della fisica – di una imminente compenetrazione tra due diversi piani di realtà; come se l’uno stesse per entrare nell’altro senza traumi, ma scivolando al di là di esso, quasi in un gioco virtuale che – oggi, ma non allora – potremmo ben dire di tipo computerizzato. O, ancora, come se due universi paralleli, seguendo una rotta di collisione inevitabile, s’insinuassero l’uno nell’altro e – con reciproca sorpresa – scoprissero di poter proseguire oltre, semplicemente attraversandosi, come se la realtà solida cessasse, per un momento, di esistere.

Si tratta di un’opera suggestiva e potentemente originale, nella quale trova piena espressione quella poetica del “limite” che è parte così caratteristica della seconda stagione futurista; quella, appunto, alla quale appartiene il giovane pittore zaratino, allora non ancora trentenne.

Al tempo stesso, vi è in essa una sapiente costruzione dinamica che la distingue dall’altra, non meno famosa ma certamente, al confronto, più statica, Prima che si apra il paracadute (esposta nella Galleria d’Arte moderna presso i Civici Musei di Udine), nella quale il paesaggio sottostante non è urbano, ma agrario, con i verdi rettangoli dei campi coltivati che fanno da contrasto, ma senza le visioni architettoniche avveniristiche e un po’ allucinate a sottolineare la congruenza con la tecnologia del mezzo aereo.

Quella di Tullio Crali è una figura singolare nel panorama artistico italiano del secolo appena trascorso. Di famiglia zaratina, nacque a Igalo, un paesino della Dalmazia presso le Bocche di Cattaro – ove il padre lavorava temporaneamente – nel 1910; ma trascorse l’infanzia a Zara, negli anni a cavallo della prima guerra mondiale, al termine della quale la città passò dall’Austria-Ungheria al Regno d’Italia; passaggio poi confermato dal Trattato di Rapallo del 1920. Ma già nel 1922 la sua famiglia si stabiliva definitivamente a Gorizia, anch’essa divenuta italiana dal 1918; e al Friuli e alla Venezia Giulia resterà sempre legato, tornandovi per organizzare attività culturali fino agli anni della seconda guerra mondiale.

Mentre frequenta l’Istituto Tecnico, nel 1925, “scopre” il futurismo sulle pagine di un giornale illustrato e ne resta folgorato: il futurismo, per lui – assieme alla passione per l’aeronautica – diviene molto più che un modello artistico: una autentica ragione di vita. Se dovessimo dire quale  poeta o pittore futurista incarna più di ogni altro, non solo nelle sue opere ma nella sua intima Weltanschauung, la concezione della realtà propria di questo movimento, senza alcuna esitazione dovremmo fare il nome di Tullio Crali. Egli fu l’unico che non praticòil Futurismo, ma lo visse in ogni istante della sua vita, sino alla fine, senza incertezze o ripensamenti.

Ancora adolescente, con l’aiuto di un intagliatore e corniciaio Goriziano, sior Clemente, comincia a dipingere acquerelli, scegliendo come soggetti forme geometriche stilizzate e immagini astratte,  caratterizzate da un estremo dinamismo. Si ispira ai grandi pittori futuristi, specialmente Giacomo Balla, Umberto Boccioni ed Enrico Prampolini, firmando le sue tele con il significativo pseudonimo di Balzo Fiamma: un nome che è anche un programma e uno stile di vita. Intanto frequenta il campo d’Aviazione di Merna, presso Gorizia, restando affascinato dalle potenzialità espressive del mezzo aereo, ed effettuando il suo primo volo nel 1928, appena diciottenne, a bordo di un idrovolante diretto in Istria.

L’anno dopo, per mezzo di Sofronio Pocarini – che da dieci anni è il più attivo animatore del movimento futurista giuliano – entra in contatto con Filippo Tommaso Martinetti e partecipa alla Seconda Mostra Goriziana di Belle Arti, aderendo alla corrente dell’Aeropittura (branca del Futurismo nata, appunto, in quel 1929). Tra le sue opere di quel periodo meritano una speciale citazione Duello aereo e Squadriglia aerea. Da quel momento, la sua attività espositiva sarebbe continuata con straordinaria intensità per tutti gli anni Trenta, sia in Italia che all’estero, compresa la Prima Esposizione Aeropittori futuristi Italiani di Parigi, nel 1932.

Si tenga presente che l’entusiasmo per l’aviazione, in quegli anni, era legato alle straordinarie prestazioni transoceaniche di aviatori come Francesco De Pinedo e Italo Balbo, che avevano entusiasmato le folle e i mezzi d’informazione di tutto il mondo; che Mussolini era più che mai fiero di tali affermazioni di prestigio della tecnologia dell’Italia fascista e si impegnava a fondo per promuoverle e sostenerle; che l’aviazione militare italiana, la prima che avesse intuito e applicato le possibilità belliche dell’arma aerea (nella guerra di Libia del 1911), nel 1935 era la seconda al mondo per numero di mezzi – più di 1.300 -, dopo la Francia, e che erano in molti a scommettere su di essa, in caso di conflitto, quale asso nella manica delle nostre Forze Armate.

Dopo essersi diplomato all’Accademia delle Belle Arti di Venezia,Tullio Crali presenta alcune sue opere, oltre che a Trieste, Padova, Milano, a tre successive edizioni della Quadriennale Romana (nel 1935, nel 1939 e nel 1943) e ad alcune della Biennale di Venezia che, nel 1940 – ormai è scoppiata la seconda guerra mondiale – gli allestisce una mostra personale. In questo periodo dipinge alcuni dei suoi quadri migliori, tra i qualiRivoluzione di mondi (che distrugge subito dopo l’esposizione), Prima che si apra il paracadute (del 1939, acquistato dalla Galleria d’Arte Moderna di Udine), In tuffo sulla città, più noto col titolo Incuneandosi nell’abitato.

Nel 1936, alla Mostra Internazionale d’Arte Sportiva organizzata alle Olimpiadi di Berlino, Crali aveva esposto altre opere, facendosi ancor più conoscere a livello europeo e mondiale; e, con Marinetti – di cui era diventato amico personale -, Prampolini, Dottori e altri artisti, aveva sottoscritto il Manifesto di Plastica Murale.

Personalità poliedrica, si era interessato anche alle possibilità pittoriche delle scenografie teatrali e dei cartelloni pubblicitari, realizzando composizioni con materiali vari, bozzetti di moda e disegni per la cartellonistica pubblicitaria; nel 1933, inoltre, aveva partecipato alla Mostra Futurista di Scenotecnica cinematografica di Roma.

Inoltre, nel 1937, Tullio Crali progetta e realizza il Sacrario dedicato ai caduti, a Gorizia, nella guerra d’Etiopia; e, nel 1939, il Museo della prima guerra mondiale, sul Monte Sabotino, sempre con una forte componente “macchinistica”. Il suo interesse per l’arte, infatti, va oltre la pittura, la scenografia e il disegno pubblicitario, coinvolgendo anche l’architettura. Nei suoi progetti architettonici (ad esempio nel Ponte Belvederedel 1931), si possono cogliere echi dell’opera di Antonio Sant’Elia, specialmente nel motivo della piramide dinamica, oltre a suggestioni costruttiviste (dal movimento nato in Russia nel 1913), legate alle forme stilizzate e tendenti all’astrattismo, proprie del mondo dell’industria.

Crali non si limita a dipingere, vorrebbe coinvolgere il pubblico nel nuovo clima artistico; e, in tale prospettiva, organizza in piena guerra, dal 1941, una serie di affollate e apprezzate “serate futuriste” in varie città d’Italia,a cominciare da quelle della sua amata giovinezza: Trieste, Gorizia e Udine. Egli è un buon oratore, sa calamitare l’attenzione degli ascoltatori e possiede un’energia infaticabile. Tra l’altro, legge al pubblico il “manifesto” Illusionismo plastico di guerra e perfezionamento della Terra, da lui scritto a quattro mani con il maestro ed amico di sempre Marinetti.

La sua vigorosa attività di promozione culturale, negli anni drammatici della seconda guerra mondiale, dovrebbe invitare, forse, a rivedere – insieme, è chiaro, a numerosi ad altri elementi – l‘immagine oggi comunemente accreditata dagli storici, italiani e stranieri, di un’Italia precocemente stanca e prostrata dal conflitto, demotivata e quasi rassegnata alla sconfitta; immagine cui ha contribuito lo stesso Mussolini che, in privato (dopo l’insuccesso della campagna di Grecia, di cui fu il massimo responsabile), si lamentava che gli Italiani «non erano più quelli del 1918, quelli del Piave e di Vittorio Veneto».

Crediamo di fare cosa utile al lettore, per meglio ricostruire il clima  di quella singolare stagione della cultura italiana,  riportare la calda rievocazione di una di quelle “serate futuriste” del tempo di guerra, attraverso le parole di un testimonio oculare: il giornalista e scrittore friulano Mario Quargnolo (dal suo volumeUdine, o cara, Edizioni del Messaggero Veneto, 1989, pp. 51-55):

Filippo Tommaso Marinetti, il fondatore del futurismo, arrivò a Udine, accolto in pompa magna dalle autorità provinciali giovedì 22 gennaio 1942. Esse (le autorità) intendevano rendere omaggio non tanto all’intellettuale di fama internazionale, quanto al fascista della prim’ora, all’accademico d’Italia (carica che gli ava diritto al titolo di eccellenza), all’amico di Mussolini. C’erano quindi tutti a rendergli onore, prima nel palazzo della Federazione fascista e poi nella sede dell’Unione provinciale professionisti e artisti di via Aquileia, dove ricevette ijn dono un catalogo sulle opere del Pordenone e una copia della pubblicazione Friuli migrante.

Ma il clou della giornata udinese di Marinetti era la manifestazione futurista, organizzata dal Guf provinciale (Gruppi universitari fascisti), nell’aula magna dell’istituto tecnico Zanon (oggi scuola media Manzoni) di piazza Garibaldi. Quel 22 gennaio 1942 si presentava particolarmente rigido. La cronaca rilevava infatti che il 13 sotto zero registrato sotto la loggia municipale e il 17 fuori porta Gemona avevano soltanto precedenti, ancor più gelidi, nel famoso inverno del 1929, cn la differenza (e questo i giornali non potevano dirlo e neppure suggerirlo) che allora, non essendovi guerra, i combustibili non erano soggetti al razionamento col contagocce.

La serata freddissima, comunque, non impedì il pienone. «Il salone e il loggiato dell’istituto tecnico rigurgitavano di autorità, di gerarchi, di letterati e artisti, di professori e studenti», informava il Popolo del Friuli. Giusto! Chi scrive queste righe e si faceva piccolo piccolo tra la folla del loggiato ricorda c’erano anche molti poliziotti in borghese, inevitabile codazzo agli spostamenti delle autorità di allora e di sempre. L’autorità numero uno presente era il federale Mario Gino, un brav’uomo con un occhio bendato forse per ferita di guerra. Costui abitava in un appartamento di via Vittorio Veneto (dove adesso ha sede la scuola di danza del Piccolo teatro); vi abitava, ovviamente, con la famiglia composta dalla moglie e, salvo errore, da due figli studenti, un maschio e una ragazza binda, entrambi dai costumi semplici, accertabili anche da chi non li conosceva di persona. Inoltre, uno che si chiamava Mario Gino suonava come ammonimento ai malparlanti, a coloro cioè che burocraticamente antepongono il cognome  al nome creando confusioni a non finire. (…)

Marinetti dunque si presentò al pubblico udinese ricordando i suoi legami col capoluogo friulano nel periodo della precedente guerra e delle lotte futuriste. Ilnuovo teatro futurista diretto da Rodolfo De Angelis era stato accolto malamente a Udine al principio  degli anni Venti. Ricordava De Angelis: «A Udine, vengono sequestrate  alla porta (del teatro sociale, n. d. r.) sirene d’auto del peso di 50 chili l’una e ortofrutticoltura varia per diversi quintali». Ma le cose erano andate ancora peggio in altri centri. A Trieste volarono patate sul palcoscenico, a Bologna vi furono colluttazioni tra avversari e sostenitori, a Venezia da un palco di proscenio lanciarono sulla scena  un grosso cavolo ai piedi di Marinetti, che non si scompose e continuò: «Il signore ha lanciato  ai miei poiedi il prodotto del suo cervello». Tuttavia nel 1942 col fascismo saldamente al potere  non erano nemmeno pensabili contestazioni di questo tipo.  Disse, quella sera, Marineti: «Il futurismo ,esaltazione della macchina, centro della poesia,  si innalza contro l’Arcadia, le greggi, i salici, e le pastorellerie sdilinquite: è patriottismo guerriero, essenza di un paese guerriero. È anche – come molti lo hanno accusato – esagerazione, necessaria però e indispensabile, perché all’infuori dell’esagerazione non v’è che sciatta e inconcludente mediocrità. Esso, sovvertitore dei vecchi principii, è il misticismo dell’azione, volontà dell’azione a ogni costo. Chi fa fa sempre bene, chi non fa, fa male a priori: il fare è sempre motivo di lode contro il non fare. E la velocità è una nuova santità, perché vaga negli spazi siderali».

Marinetti, che allora aveva quasi sessantasei anni, annunciò inoltre di essere in attesa di via libera da parte del suo medico curante per arruolarsi volontario sul fronte russo. Dopo questa dichiarazione presentò il pittore, anzi l’aeropittore Tullio Crali, il quale diede spiegazioni intorno al suo quadro, esposto al pubblico, intitolato Il paracadutista. A proposito: pochissimi anni fa, su invito dell’Università popolare, tenne una conferenza a Udine proprio Crali, il quale non soltanto difese l’opera di Marinetti, ma volle altresì metterne in luce la tolleranza, la generosità, la calda umanità. Agli amici diceva infatti: «Prima l’arte e dopo la politica», rifiutando, per esempio, di giudicare negativamente, sul piano appunto politico, uno scrittore come Majakovskij, che era un comunista coi fiocchi. E – questo lo aggiungiamo noi – lui, fascista e futurista, aiutò in tutti i modi il commediografo Roberto Bracco che era antifascista e passatista, cioè ancorato a una vecchia concezione scenica liquidata sì da Pirandello, ma anche dalla teoria marinettiana.

E torniamo alla serata udinese. Crali annunciò i principii informatori della sua arte: movimento, velocità, sintesi, simultaneità. «Io comprendo l’aeropittura perché volo, ho volato e dipingo dopo aver volato. Nell’aeropittura noi futuristi abbiamo trovato una forma di respiro nuovo: combattendo la natura morta come qualcosa di debole e di impotente e vigliacco». A questo punto, sempre garbatamente, cominciarono i contraddittori. Un capitano dell’esercito si alzò e obiettò: «Ma signori! Come faranno i posteri a riconoscere il duce da un vostro ritratto?». Facilissima, anzi ovvia, la replica di Marinetti: «Se uno vorrà conoscere il vero volto del duce, ricorrerà alla fotografia., non alle interpretazioni degli artisti». Il duce o, meglio, il Duce si intrufolava dappertutto in quel tempo, conseguenza diretta e inevitabile della dittatura. E in Russia? «La regione di Mosca, come ha detto il compagno Stalin, è molto piovosa», solennemente annunciavano i testi scolastici sovietici.

La terza parte della serata fu occupata dall’aeromusicista  Aldo Giuntini, il quale, convinto che la musica «come tutte le forme d’arte deve essere rinnovata», eseguì al pianoforte alcuni suoi brani di sintesi-brevità (smateria secondo la sua denominazione). Il mare, cacciatorpediniere Nullo, Vincemmo a Passo Uarieu, battaglia di terra mare cielo (i futuristi non usavano virgole, ndr), la vittoria della gioia sul dolore, L’infinito. Spiegava il cronista del Popolo del Friuli: «Abbiamo notato un insieme di scale cromatiche ascendenti e discendenti, accordi tempestosi, note insistentemente ribattute, fotofonia, onomatopea, i sensi melodico e armonico sconvolti completamente con salti dal tonalismo diatonico o cromatico alle atonalità o politonalità, di ispirazione nettamente antiromantica».Vincemmo a Passo Uarieu, brano suggerito da un episodio della guerra italo-etiopica del ’35-’36 – tra vari rumori bellici vi trapelavano le note di una popolarissima canzonetta di quel conflitto mamma ritorno ancor nella casetta / sulla montagna che mi fa natale / son pien di gloria amata mia vecchietta / ho combattuto in Africa orientale…) – provocò un amabile scambio di opinioni tra Marinetti e il giovane professore Vittorio Marangone, che si trovava nel loggiato con un gruppo di suoi studenti. Parlò poi ancora il fondatore del futurismo definendolo «sintesi mediterranea, stretto rapporto tra l’arte e la forma del paese, la nostra divina penisola, che è la meno pazza che ci sia sulla terra, la più equilibrata, con curve, seni, colline. Perciò il futurismo è l’arte più equilibrata».

Quindi l’aeropittore Crali, cambiando ruolo, recitò alcune poesie di Marinetti: La mula di batteria, Agello Castoldi: 709 chilometri, Bombardamento di Adrianopoli, Sì sì così l’aurora sul mare, Aeropoema del tenente colonnello Gabriele Pepe. E infine Marinetti – trascriviamo dalla stampa – «rivolge un caldo, affettuoso saluto a Udine, città di vitalità esplodente eccezionale, promettendo di ritornare per declamare alcuni brani della sua operaCanti di eroi della guerra mussoliniana». Ed ecco la perorazione: «Voi udinesi mi siete oltremodo simpatici: siete futuristi in erba, o meglio, futuristi che non hanno ancora decollato. Viva il motore! Viva Benito Mussolini, motore del secolo!».

E dopo questo viva – da tutti noi, dal primo all’ultimo, ascoltato in piedi – la sala lentamente sfollò. Però, nonostante il freddo polare, le discussioni continuarono a lungo sotto i lampioni delle strade azzurrati per l’oscuramento. Si udivano i pro e, naturalmente, i contro. Va da sé, in ogni caso, che Udine mai decollò nel senso auspicato da Marinetti. Tuttavia quell’ormai lontana serata -per l’autorità dell’ospite, per la sua particolarità legata a un’epoca irripetibile, per certi indubbi fermenti culturali suscitati – non può essere dimenticata almeno da parte di colore che, pur da spettatori in sott’ordine, l’hanno vissuta.

Dobbiamo alla testimonianza diretta del dottor Walter Faglioni  questa curiosa coda. Terminata la manifestazione, le autorità e gli organizzatori si recarono, con Marinetti, ovviamente, nella sede del Guf situata in via Carducci nell’edificio del Popolo del Friuli.Qui consumarono una torta a forma di Gran Bretagna e mentre essa era tagliata a pezzi a viva voce commentavano: «Ecco lo smembramento dell’Inghilterra!»…

Terminata la guerra, Tullio Crali si trasferisce dapprima a Torino, indi a Parigi, ove rimane dal 1950 al 1958, mantenendosi come insegnante in un liceo italiano. Le opere pittoriche del periodo parigino hanno per soggetto architetture moderne, industrie, cantieri navali. Alcune escursioni sulla costa della Bretagna gli forniscono l’ispirazione per le sue composizioni litiche, dette “sassintesi”, esposte per la prima volta a Milano nel 1961.

Dopo un breve rientro in Italia, nel 1962 apre un capitolo inedito della suo percorso artistico ed umano, trasferendosi addirittura in un altro continente: l‘Africa. Per quattro anni risiede in Egitto, al Cairo, come insegnante presso la locale Scuola d’arte italiana. Solo nel 1966 rientra definitivamente in Italia, a Milano, dove continua a lavorare instancabilmente fino in tarda età. Comincia anche a raccogliere e catalogare i documenti della sua intensa stagione artistica, donando al MART di Trento e Rovereto ben 41 opere nel 1999, cui ne seguiranno altre 48 l’anno dopo. Tra esse, quella che è probabilmente la più nota e, forse, il suo capolavoro:Incuneandosi nell’abitato.

Tullio Crali è morto a Milano il 5 agosto del 2000 ed è sepolto, per sua volontà, nel cimitero di Macerata, città dove risiedevano la moglie e alcune nipoti. Il suo nome, comunque, resterà principalmente legato alla stagione pittorica degli anni Trenta, nella quale egli ha dato prova di notevole originalità di concezioni e di padronanza delle tecniche espressive, nelle sue sintesi moderniste sul tema della velocità e di un paesaggio urbano iper-razionalizzato, con slanci immaginifici alla Sant’Elia; fino alle successive, vorticose prospettive  di picchiate su aeroporti e lanci col paracadute.

A quella felice, innovativa stagione artistica, in sostanza quella dell’Aeropittura, Crali sarebbe rimasto sempre fedele, anche nella produzione della seconda metà del Novecento, fino alla conclusione della sua laboriosa carriera artistica, novantenne, in un panorama culturale così diverso da quello nel quale aveva esordito, con giovanile entusiasmo, allorché Marinetti proclamava orgogliosamente che il futurismo era «sul promontorio estremo dei secoli».