Assenti grandi nazionali come Inghilterra, Uruguay, Austria e Argentina toccò ai brasiliani, in semifinale, il compito di rompere lo strapotere italiano. Ma i sudamericani schierando le riserve spalancarono all’Italia le porte della finale.
In un Europa sconvolta da drammatici contrasti politici che culmineranno un paio d’anni piú tardi nei fulmini terribili della conflagrazione si svolge la terza edizione della Coppa del Mondo. E i fuochi della guerra incidono già sulla partecipazione di nazioni come la Spagna, avvolta nel dramma della Guerra Civile e dell’Austria, fagocitata nell’Anschluss, ossia l’annessione al terzo Reich nazista. I delegati della FIFA convenuti a Berlino nel ’36, in occasione del torneo Olimpico vinto clamorosamente dall’Italia, non tennero alcun conto della mozione che stabiliva la designazione quadriennale alternata fra Europa e Sudamerica. Risposero picche alle profferte argentine e in ossequio ai meriti di grandi dirigenti come Jules Rimet, Henry Delaunay e Robert Guerin assegnarono l’organizzazione della Coppa alla Federazione francese. La doverosa designazione sottolinea i meriti dei francesi nella costituzione della FIFA prima e nella resistenza agli intrighi britannici per volgere a loro vantaggio la politica Informatrice della Confederazione.
E’ una Francia in piena crisi istituzionale quella che organizza la Coppa del Mondo. Le sinistre hanno gestito il potere per un paio d’anni con il fronte popolare di Leon Blum, Camille Chautemps ed Edmond Daladier, l’economia è in crisi e proprio il «gabinetto» Daladier sarà costretto a chiedere i pieni poteri per riassestarne le strutture. Si moltiplicano i trattati, si stabiliscono alleanze per arginare la politica espansionistica del nazionalsocialismo tedesco, ma dopo l’annessione dell’Austria, Hitler assume in proprio il ministero delle Forze Armate e volge le sue mire ai Sudeti inducendo la Cecoslovacchia alla mobilitazione. La Gran Bretagna ha riconosciuto la sovranità italiana sull’Abissinia e Mussolini si è impegnato a ritirare i volontari italiani dalla Guerra Civile spagnola. Hitler è in Italia nei primi giorni di maggio in cerca di alleanze, ma non ottiene nulla di importante. I prodromi della guerra sono già presenti e minacciosi nella realtà del vecchio continente, ma ciò non impedisce ai francesi di organizzare la manifestazione al livello delle precedenti e alle folle di accorrere in gran numero al richiamo degli incontri.
Per la prima volta è introdotto il principio in base al quale il paese organizzatore e il detentore del titolo vengano esentati da qualsiasi impegno di qualificazione, Francia e Italia quindi accedono alla fase finale senza colpo ferire. Per il resto le 13 Federazioni che aderiscono alla competizione affrontano i turni eliminatori senza dar luogo ad eliminazioni di rilievo. La partecipazione americana è notevolmente assottigliata, solo Brasile e Cuba hanno affrontato il viaggio. C’è la novità delle Indie Olandesi, prima rappresentante asiatica a rappresentare l’assurdo fenomeno che privilegia nazioni tecnicamente inconsistenti a danno di altre costrette a scannarsi fra di loro per conquistare un posto.
L’Inghilterra continua la sua guerra a distanza con la FIFA, l’Argentina non partecipa per dissapori con la federazione brasiliana ma soprattutto per il rifiuto della designazione come organizzatrice. L’Uruguay rimane fedele al comportamento di rappresaglia assunto nel ’34. Sono defezioni importanti, che portano acqua al mulino di quanti combattono la Coppa del Mondo, e ridimensionano il valore tecnico del titolo pur tenendo conto che gli assenti hanno sempre torto. L’Uruguay stava ristrutturando la propria rappresentativa. Non disponeva di una grossa nazionale e lo testimoniano i risultati piuttosto mediocri di quel periodo, ma poteva schierare comunque un manipolo di campioni come Porta, Ciocca, Zapirain, Severino Varela e quell’Afillo Garda che debuttò proprio nel ’38 nel Nacional e che diverrà in seguito il massimo «goleador» di tutta la storia calcistica uruguagia.
In Argentina era il periodo dei grandi centravanti come Ferreyra ed Masantonio e di giocatori come Pedernera, Moreno, Sastre, Lazzati, Zozaya, che hanno illustrato con le loro gesta tutta un’epoca del calcio «portenho». L’assenza delle rappresentative britanniche pesava notevolmente sul prestigio della Coppa del Mondo. L’Inghilterra rimaneva la pietra di paragone per eccellenza in quel periodo e anche la Scozia, che in quel 1938 l’aveva battuta nell’Home Championship, avrebbe dato lustro ad una competizione che nata quasi per scommessa, era giunta alla terza edizione e si era conquistata uno spazio che si faceva di quadriennio in quadriennio sempre più importante. Convinti di poter disporre di «a very superior team» gli inglesi davano sfogo alla loro proverbiale superbia, ma il ruolo di prima potenza calcistica gli era riconosciuto un poco da tutti, invischiati com’erano in una specie di «inferiority complex» che avrà fine solamente dopo la grande lezione ungherese del ’53.
E’ presente comunque il Brasile e questa volta con una formazione agguerrita che ha tenuto conto della lezione del 1934. La CBD si è affidata a Carlito Rocha e Luis Vinhaes sollecitando gli incaricati a considerare attentamente l’esperienza precedente. Come abbiamo già visto l’introduzione del professionismo nel ’33 aveva innescato una situazione perversa, propiziatrice della fuga dei grandi talenti verso lidi più remunerativi e di continue scissioni, con la conseguente disputa di diversi tornei di pari valore in ogni stato. Con la rimozione dei vecchi contrasti la CBD aveva reintegrato il proprio ruolo egemone ed unificato tutte le forze.
La partecipazione alla Coppa del Mondo era il banco di prova della raggiunta maturità e non si può negare un certo successo a chi in precedenza aveva così clamorosamente deluso pur tenendo conto che gli obiettivi di partenza riguardavano unicamente la conquista della prestigiosa statuetta. La selezione brasiliana era composta da una schiera di autentici campioni del Flamengo e del Fluminense come Batatais, Tim, Hercules, Romeo Pellicciari, Dommgos da Guia, Peracio e Leonidas da Silva. Completavano l’organico elementi come il capitano Zezé Procopio, il mediano Brandao e «Niginho» Fantoni che aveva giocato nella Lazio e che non potè disputare quei mondiali perché una disposizione regolamentare vietava ad un calciatore utilizzato in altra nazionale, di rigiocare per la rappresentativa d’origine.
Era comunque una grossa nazionale quella brasiliana formata sull’esperienza del campionato Sudamericano del ’37, al quale la CBD aveva partecipato dopo aver ricomposto i dissidi con la consorella argentina. Disputato in Buenos Aires, la XI Coppa Americana diede modo ad Ademar Pimenta di formare un nucleo di campioni che verrà, poi completato più avanti con l’innesto di Leonidas da Silva e Domingos da Guia che erano certamente i professionisti meglio pagati di tutto il Sudamerica. Dell’esperienza del ’34 Pimenta tenne conto soprattutto in riferimento a quella che per lui era la fondamentale ragione della superiorità degli europei: l’efficacia e la decisione negli interventi difensivi. Dedicò cure particolari a questa faccia del problema e ne vedremo più avanti i risultati.
Solida e compatta la rappresentanza europea. A gironi eliminatori già terminati e con la qualificazione ormai assicurata il 12 Aprile 1938, la Federazione austriaca annunciava la sua rinuncia, scaturita come abbiamo visto dall’Anschluss. I migliori giocatori austriaci verranno utilizzati da Herberger per la rappresentativa del grande Reich. Assente la Spagna, che tanto duramente aveva impegnato gli azzurri nel ’34; la tragedia della Guerra Civile ha cancellato ogni attività sportiva. Ancora assente la Jugoslavia, inaspettatamente eliminata da Polonia e Norvegia, Ungheria, Cecoslovacchia e Germania venivano indicate come le rappresentative più attrezzate per contendere agli azzurri la conquista del titolo.
L’Ungheria godeva di grande reputazione in seguito ai risultati che nel ’37 avevano richiamato l’attenzione dei tecnici specializzati. Uscita con onore in sede di «quarti», sconfitta dall’Austria di Sindelar nel ’34 a Bologna, l’Ungheria era tornata a livelli degni della sua tradizione, tanto da prendersi nel ’35 una solenne rivincita sui rivali di sempre, vincendo a Budapest 6-3 con 3 reti di «Giurka» Sarosi. In Coppa Internazionale (1933/35), si piazzò seconda a pari punteggio con l’Austria, alle spalle dell’Italia, assurta al rango di vera e propria bestia nera dei magiari. Perdeva regolarmente dagli azzurri, ma ciò non impediva al Commissario Unico Karoly Dietz ambizioni più che legittime. Disponeva di una schiera di assi di notevole prestigio come Sarosi e Toldi del Ferencvaros, Sas, Titkos e Cseh dell’Hungaria, Vincze e Zsengeller dell’Ujpest e Vili Kouth, che allora giocava nell’Olimpique di Marsiglia.
Karoly Dietz ricopriva l’incarico di selezionatore fin dal ’34 ed aveva un solo obbiettivo: la conquista della Coppa, e al raggiungimento di tale meta rivolgeva ogni sforzo possibile, per rivendicare al calcio magiaro quella supremazia che a suo parere meritava più di ogni altro. Ma l’euforia delle vittorie sull’Austria nel ’36 (5-3 sia a Vienna che a Budapest), venne bruscamente interrotta da una doppia sconfitta a Praga (5-2) e a Londra (2-6) con una tripletta di Ted Drake. Il trillo d’allarme fu immediatamente recepito e Dietz, secondo il principio in base al quale, chi dispone di talenti deve impegnarli, diede vita a quello che divenne poi il “trust dei cervelli”. Composto dal classico Giorgio Sarosi, dal geniale Laszlo Cseh e dal fromboliere Gyula Zsengeller lasciò un grande ricordo per la clamorosa vittoria di Praga nel Settembre 1937. 8-3 il punteggio di quell’incontro con il grande Sarosi ad infliggere 7 reti al leggendario Planika. La preparazione al mondiale era stata attenta e il risultato della qualificazione soddisfacente (11-1 alla Grecia). La grande conquista era a portata di mano.
La nazionale Cecoslovacca era in piena evoluzione dopo l’inattesa sconfitta ad opera dell’Italia nella finale di Roma. Penultima nella Coppa Internazionale terminata nel ’35, la selezione boema era stata sottoposta ad un processo di rinnovamento teso a rimpiazzare quei giocatori ormai in età avanzata. Antonin Puc ad esempio, prestigiosa ala dello Slavia, primatista delle reti in nazionale farà una sola apparizione nel mondiale in favore del più giovane Rulc. I terzini Zenisek e Vtyroky erano stati sostituiti con Burger e Daucik e la linea mediana era ancora fortissima composta da Kostalek e Boucek che già avevano giocato in Italia e completata da Kopecky dello Slavia. In attacco resisteva il solo Olda Neyedly ormai trentunenne, in grazia della grande classe di cui madre natura lo aveva dotato, e la ragnatela tipicamente boema era affidata alle giovani leve dei due squadroni praghesi. Fra i pali ancora il grande Planika e la partita dei «quarti» contro il Brasile sarà la sua ultima apparizione con la maglia della nazionale boema. La sconfitta del ’37 ad opera dei magiari (3-8) ed un altro rovescio subito a Basilea (0-4) ad opera della Svizzera di Amadò che già aveva assunto lo schieramento a «verrou», aveva ridimensionato la caratura boema, ma l’1 dicembre del ’37 i «rossi» erano andati a Londra ad incontrare i «maestri». Era finita 5-4 per i padroni di casa, ma i cechi con una grande prestazione avevano rivendicato il ruolo di grande potenza calcistica e Neyedly e Puc erano stati osannati quali autentici maghi del pallone. Questo risultato con la risaputa capacità di concentrazione dei boemi nei momenti decisivi ne aveva rivalutato la reputazione e anche i boemi erano attesi in Francia con enorme interesse.
Si cominciò con risultati inaspettati e clamorosi. La Svizzera attestata sulla difensiva e dotata dell’impla- cabile arma del contropiede sbatté fuori in malo modo la Germania. Come abbiamo visto la Svizzera era già disposta a catenaccio e tale tattica di gioco era stata introdotta dal tecnico austriaco Rappan che allenava il Servette di Ginevra. La formazione germanica allestita dal giovane Sepp Herberger che poche settimane prima aveva rimpiazzato il Dott. Nerz, cercava di conciliare la tecnica spumeggiante dei selezionati austriaci con la forza atletica, tradizionale caratteristica dei giocatori di ceppo tedesco. Il tentativo di fondere due scuole diverse diede vita ad un complesso eterogeneo, povero di personalità, che fu brutalmente spazzato via dalla manovra tagliente ed incisiva degli elvetici. Il primo incontro terminato in pareggio (1-1) ebbe una replica 5 giorni dopo. Herberger aveva limitato la presenza austriaca a tre soli elementi (Raftl, portiere; Hahnemann centravanti; Stroh interno) ma i risultati furono gli stessi. Gioco confuso, lento, involuto e per contro rossocrociati in gran spolvero, guidati dalla grande personalità di Trello Abegglen verso l’importante vittoria.
Anche la Romania di Juliu Bodola uscì per la tangente battuta dall’inedita rappresentativa cubana. Gran lotta nel primo incontro e pareggio per 3-3; nella ripetizione i centro-americani riuscirono a prevalere dando luogo ad un precedente che in futuro ci toccherà molto da vicino. Più facile del previsto la vittoria della Francia padrona di casa sui belgi che schieravano Raymond Braine al centro dell’attacco. Alla vigilia i francesi temevano la caratura dei belgi, li preoccupava il salto di qualità che aveva permesso ai belgi una franca vittoria sui maestri inglesi. Raymond Braine che quando giocava nello Sparta era stato definito «dei fussball fuhrer» aveva miracolato i «diavoli rossi» e Barreau, selezionatore dei «galli» temeva questo primo ostacolo sulla strada di una affermazione che egli riteneva possibile tenendo conto di quanto era successo a Montevideo e a Roma. Due gol di Nicolas, uno di Veinante, l’esperienza ormai trimondiale di Delfour e Mattler cancellarono ogni apprensione lasciando intravedere qualche difficoltà per i nostri azzurri deputati ad incontrare i padroni di casa in sede di «quarti». La buona vena del Brasile è sottoposta ad un probante collaudo. Il sorteggio ha indicato la Polonia quale inedita avversaria per i gialloverdi ed i riferimenti per valutare la consistenza dei polacchi sono scarni e scarsamente indicativi.
É un incontro caratterizzato da condizioni atmosferiche piuttosto capricciose. All’inizio il tempo è buono, il terreno soffice e il Brasile non tarda ad evidenziare la propria superiorità andando a rete con disinvoltura. La prima frazione termina 3-1 e Leonidas esalta il pubblico con un campionario di prodezze che lascia allibiti. Sembra già tutto deciso, ma un improvviso temporale infradicia il terreno di gioco e nella ripresa i polacchi riescono a far prevalere la consistenza fisica e l’abitudine a correre e manovrare sul terreno impregnato ai pioggia. L’arbitro Eklind negò ai brasiliani la possibilità di giocare a piedi nudi e i polacchi con le prodezze di Ernest Willimowski riuscirono ad eguagliare in bravura i sudamericani, fissando il punteggio dei tempi regolamentari sul 4-4. Intanto era tornato il sole e Leonidas riportò avanti i suoi ristabilendo il vantaggio al 94′, ma Willimowski, un implacabile «goleador» che si esaltava nella lotta nel giro di dieci minuti riuscì a riportare in pareggio i suoi. Decisiva fu l’ultima perla del «diamante negro» al 114′ e dopo due ore di entusiasmante battaglia la partita si chiuse 6-5 in favore dei brasiliani. Leonidas già famoso diede in quella occasione un saggio delle sue capacità, e fu eguagliato in bravura da un illustre sconosciuto di caratteristiche completamente diverse dalle sue.
Ernest Willimowski era un gigante biondo, solido e possente, combattente meraviglioso, capace di scardinare le difes in virtù di una taglia atletica considerevole. Giocava in nazionale dal ’34 come interno sinistro e proveniva dalle file del Ruch Chorzov. Mise a segno 21 reti nelle 21 partite disputate con la maglia del suo paese e si confermò formidabile realizzatore anche nella rappresentativa del Reich, quando Hitler con le sue armate fagocitò la libertà della Polonia. Con la maglia dell’aquila germanica, accanto a giocatori come «Bimbo» Binder, Fritz Walter, Helmut Schoen, Willimowski dimostrò tutte le sue capacità di «goleador» segnando 13 reti nelle otto apparizioni collezionate. Un grande attaccante che senza la tragedia della guerra avrebbe certamente riempito con le sue gesta le gazzette sportive del continente e portato la sua Polonia a risultati stupefacenti. Anche la Cecoslovacchia fu costretta ai supplementari dalla strenua resistenza olandese. Solo l’ultima mezz’ora fu decisiva e i cechi segnarono tre reti sfruttando appieno il vantaggio numerico derivato dall’infortunio dell’olandese Van Heel.
Difficoltà consistenti incontrarono gli azzurri partiti nel mondiale con i favori del pronostico, in virtù del titolo conquistato a Roma, della vittoria alle Olimpiadi di Berlino, e dall’imbattibilità che durava dal 4 Novembre 1935 protrattasi per 18 incontri. Lo scetticismo che aveva accolto la validità tecnica della vittoria di Roma era stato cancellato dalle continue vittorie azzurre, dalle imprese di una squadra che pur ricostruita per otto/undicesimi aveva confermato la buona levatura del vivaio italiano. La Norvegia non era accreditata di grandi possibilità, ma giocava un calcio matrice inglese, veloce, solido, in virtù di una prestanza atletica piuttosto consistente. Sulla fascia sinistra schierava un lungagnone ventiseienne, scuro di capelli, veloce e rapido nei tiro a rete: Arne Brustad del Lynn di Oslo, che già si era fatto ammirare alle Olimpiadi di Berlino dove aveva segnato 5 gol in 3 partite.
I norvegesi marcavano da presso i nostri, giocavano d’anticipo ed entrati in possesso di palla scagliavano fiondate a pelo d’erba sulle fasce laterali dove le ali erano prontissime allo scatto. In tal modo i mediani azzurri Serantoni e Locatelli, che erano deputati al marcamento delle ali furono costretti a tamponare e quindi a limitare il rifornimento all’attacco e tutta la manovra subì danni i irreparabili. Gli azzurri, passati in vantaggio in apertura con Pietro Ferraris che spedì in rete una corta respinta del portiere, successiva ad un tiro di Ferrari, furono raggiunti in chiusura da Brustad. Un paio di minuti dopo il norvegese ripeté l’impresa ma fortunatamente Beranek annullò per fuorigioco. Si resero necessari i supplementari e fu Piola a fissare il vantaggio dei nostri sul 2-1 racco-gliendo una corta respinta del portiere su tiro di Pasinati. Con Olivieri migliore in campo per le formidabili parate sui tiri degli insidiosi norvegesi, l’Italia aveva superato gli ottavi grazie al valore dei singoli.
Gli azzurri erano scesi in campo così allineati: Olivieri; Monzeglio Rava; Serantoni Andreolo Locatelli; Pasinati Meazza Piola Ferrari Ferraris II. I reduci del ’34 erano Eraldo Monzeglio alla sua ultima apparizione in azzurro, Peppin Meazza e Gioanin Ferrari. Nella costruzione della squadra Pozzo si era attenuto al canovaccio conosciuto. Gli ultimi anni trenta coincisero con il periodo di massimo splendore del metodo, il vivaio produceva autentici campioni, e sfruttando al massimo queste componenti positive Pozzo riuscì a plasmare un capolavoro di razionalità. Una squadra fortissima sul piano tecnico, atleticamente preparata, ricca di individualità di grande prestigio come Meazza e Ferrari che erano fra i migliori d’Europa, Silvio Piola centravanti acrobatico dal tiro folgorante, capace di colpire al volo e scaraventare in rete qualsiasi palla, e poi Andreolo, di scuola uruguagia, meno potente di Monti ma più mobile e agile, efficace nel gioco aereo e nel rilancio. Fra i pali Olivieri, un grande portiere che nella partita con la Norvegia salvò da solo una squadra che sembrava destinata al naufragio. E con Monzeglio giunto al passo d’addio erano pronti Foni e Rava, i terzini di Berlino, l’uno classico e temporeggiatore come lo era stato Rosetta, l’altro atletico e potente, forte di testa. Ai lati di Andreolo c’erano l’instancabile Serantoni e l’elegante Locatelli e sulla fasce, deputate al cross per l’ariete Piola, Pasinati e Ferraris II nell’incontro con la Norvegia ed in seguito l’eclettico Biavati ed il guizzante Colaussi.
Sulla strada degli azzurri si stagliava ora una Francia ambiziosa, caricata dalla facile vittoria sul Belgio e confermata con: Di Lorto; Mattler Cazenave; Bastien Jordan Diagne; Aston Heisserer J. Nicolas Delfour e Veinante. Italiani nella formazione che giocherà tutti gli incontri rimanenti: Olivieri; Foni Rava; Serantoni Andreolo Locatelli; Biavati Meazza; Piola Ferrari e Colaussi. C’era il «tout Paris» sugli spalti, 60.000 spettatori e la rappresentanza italiana era piuttosto esigua, arbitro il belga Baert che alle cinque precise diede il via alle ostilità. Sette mesi prima, stesso teatro, Laurent Di Lorto era stato l’eroe di un pareggio a reti bianche che aveva fermato i lanciatissimi azzurri. Ma il clima di Coppa ha forse intaccato la sua sicurezza e al 9′ si fa infilare da una innocua centrata di Colaussi. Non passa un minuto ed Heisserer incredibilmente libero in area italiana può agevolmente battere Olivieri. Dieci minuti, due gol, latente nervosismo in campo con i transalpini che accelerano il ritmo del gioco e gli azzurri che pagano forse lo «stress» dell’incontro con la Norvegia. Ma il gioco di Veinante ed Heisserer, troppo rapido, crea confusione nelle file dei «galli» che premono senza efficacia nel mentre Andreolo e Meazza crescono di tono e cominciano a dominare il centrocampo. L’oriundo riporta calma e razionalità, lucidità e precisione.
Meazza arma il controgioco e quando gli azzurri rientrano in campo per la ripresa la superiorità dei nostri si trasforma subito in cifra. Azione a schema classico di quella grande squadra; è il 6′, Ferrari lancia sulla destra verso Biavati, fuga veloce dell’ala e centro a mezz’altezza. Irrompe in corsa Piola e di destro al volo infilza imparabilmente Di Lorto. 27′: trama azzurra Piola-Colaussi-Biavati, veloce sgroppata dell’ala e centro basso che Piola colpisce in tuffo di testa battendo imparabilmente il portiere transalpino. Vittoria netta e meritata e ritrovata efficienza della squadra che attende ora con interesse il risultato dell’incontro fra il temutissimo Brasile e la Cecoslovacchia.
A Bordeaux patria del rugby francese, Brasile e Cecoslovacchia ne combinano di tutti i colori. Difendono ferocemente il loro diritto a proseguire nella competizione anche quando i risvolti della partita si fanno drammatici. Agli ordini del magiaro Hertzke le squadre s’erano così schierate: Walter; Domingos da Guia, Machado; Zezé Procopio, Martim Alfonsinho; Lopez Romeo Leonidas Peracho Hercules, e i cechi: Pianika; Burger Daucik; Kostalek Boucek Kopecky; Riha Simunek; Ludy Neyedly Puc. I sudamericani mal sopportano la stretta guardia cui sono sottoposti dai boemi e le scintille del nervosismo non tardano ad affiorare e a provocare più di una rissa. Al 12′ Zezé Procopio e Machado intervengono duramente su Neyedly e gli procurano una frattura al piede destro. Zezé è richiamato dall’arbitro e perde il controllo dei nervi. Fuori. Al 30′ Leonidas inventa il gol e riesce a portare in vantaggio i suoi, ma pochi minuti prima dell’intervallo Machado e Riha si esibiscono in un lungo pugilato. Espulsi entrambi.
La ripresa è ancora più dura e scorbutica, brasiliani e cechi si affrontano ben al di là del regolamento che l’arbitro è incapace di far rispettare. Leonidas e Peracho risultano lesionati ma possono rimanere in campo, Planika purtroppo deve ricorrere all’ospedale dove gli viene ricomposta una frattura ad un braccio e Neyedly dopo aver resistito stoicamente per quasi un’ora ed aver segnato su rigore il gol del pareggio (63′) guadagna a sua volta la via dell’ospedale. Pur ridotti a sette uomini validi, Kostalek è stato colpito al basso ventre e si regge in piedi a fatica, i cechi riescono a mantenere inalterato il punteggio di fronte ai brasiliani superiori di numero ma ugualmente ridotti a malparato.
Per la ripetizione Ademar Pimenta può agevolmente sostituire nove uomini confermando solamente il portiere Walter ed il fuoriclasse Leonidas. I cechi invece perdono di consistenza e devono rinunciare a uomini come Planika, Neyedly e Puc. Nonostante tutto riescono a passare in vantaggio con una bella rete di Kopecky ma poi nella ripresa sono costretti a cedere alla maggior freschezza dei brasiliani che pervengono al successo con il solito Leonidas e con Roberto. Saranno dunque i brasiliani ad incontrare i campioni del mondo in carica e Pimenta vede già balenare l’oro della Coppa.
Dall’altra parte del tabellone Ungheria e Svezia hanno avuto un cammino più facile e regolare. I magiari si sono sbarazzati agevolmente delle Indie Olandesi e hanno regolato con il classico punteggio (2-0) le velleità degli Svizzeri con una doppietta di Gyula Szengeller. La Svezia superato il primo turno per il «forfait» austriaco ha sbattuto fuori Cuba con un punteggio (8-0) che non ammette discussioni. Italia e Brasile, Ungheria e Svezia si disputeranno dunque l’accesso alla finale. L’attesa è febbrile e i francesi danno prova di una meravigliosa maturità sportiva. La loro rappresentativa è fuori irrimediabilmente battuta ma con spirito sportivo seguono appassionatamente le fasi finali della competizione.
A Marsiglia dove gli azzurri si portano per incontrare il Brasile sono presenti 40.000 spettatori e 5.000 rimangono fuori dai cancelli. Al solito il pubblico parteggia per i sudamericani, si sprecano le urla all’indirizzo dei nostri infiorate di «macaroni» ed altre amenità varie, ma questo vantaggio non basta ai brasiliani. La presunzione gioca un brutto tiro ad Ademar Pimenta. E’ talmente sicuro del fatto suo, che non solo prenota l’unico aereo che da Marsiglia volerà a Parigi in vista della finalissima, ma giudicando l’incontro alla stregua di una formalità decide di concedere un turno di riposo al fuoriclasse Leonidas e al funambolo Tim. E’ una mossa suicida per i gialloverdi che sono scesi in campo con: Walter; Domingos da Guia Machado; Zezé Procopio, Martini, Alfonsinho; Lopez Luisinho Peracho, Romeo Patesko.
L’indefinibile gazzarra inscenata all’ingresso degli azzurri non ebbe alcun riscontro sui nervi dei nostri. Confermata la formazione che aveva eliminato i «galli» i nostri mantennero sangue freddo e lucidità, lasciando manovrare i brasiliani con i loro eleganti arabeschi, vuoti dell’efficacia necessaria alla ricerca del vantaggio. Nella prima frazione i «gialloverdi» mantennero l’iniziativa, ma raramente si fecero pericolosi. Per contro gli italiani rispondevano in contropiede, ma le marcature attente dei sudamericani (Domingos su Piola) impedirono ai nostri di passare. In apertura di ripresa il gioco d’attacco dei nostri si fece più preciso ed insistente e nel giro di 4′ gli azzurri riuscirono a scardinare il dispositivo difensivo brasiliano. AI 56′ Colaussi ricevuta la palla da Piola la scaraventò in rete da circa venti metri e al 60′ il centravanti azzurro fu messo a terra senza complimenti dal suo angelo custode ed il successivo rigore fu realizzato freddamente da Meazza. Sul finire Romeo Pellicciari riuscì a dimezzare le distanze sfruttando una mischia in area azzurra ma i nostri non corsero ulteriore pericolo e controllarono agevolmente gli ultimi minuti della partita che assicurava l’accesso alla finale.
L’altra semifinale si giocò a Parigi e la Svezia ancora ricca di energie costituì un banco di prova abbastanza impegnativo per i magiari. Passati in vantaggio con Nyberg gli scandinavi si illusero di avere in mano la partita. Accorciarono gli spazi e pur nei limiti delle concezioni tattiche del tempo cercarono di controllare gli attaccanti ungheresi che apparivano impacciati ed in giornata di scarsa vena. Ci pensò Zsengeller a rimediare le cose. Grande attaccante dell’Ujpest, nato nel 1915, Gyula era allora ventitreenne, stava attraversando il periodo migliore della sua carriera troncata dal quinquennio della guerra. Nel giro di 20′ Zsengeller pareggiò e portò in vantaggio i suoi. Alla fine con un’ altra rete conquistò il comando delia classifica cannonieri e fissò il punteggio della semifinale sul 5-1. Il conflitto mondiale impedì a questo grande campione la completa valorizzazione dei suoi mezzi notevolissimi. Nel campionato magiaro 1938-39 segnò la bellezza di 56 reti nelle 26 partite del torneo ed anche in nazionale avrebbe certamente incrementato il suo record di 32 gei nelle 38 partite disputate. Venne in Italia alla Roma nel ’47 ma i patimenti e i dolori della guerra avevano influito sul suo morale e apparve come una pallida figura del grande atleta che era stato.
Italia e Ungheria nuovamente di fronte. Una sfida che si ripeteva da anni, una classica del calcio centro-europeo. Da quella famosa partita di Budapest dell’11 maggio 1930 quando gli azzurri andarono a conquistare la Coppa Inter-nazionale e Meazza attinse le vette della celebrità europea, i magiari erano riusciti a pareggiare due sole volte perdendo i rimanenti incontri sia a Budapest che in Italia. Ma ora guardavano alla finalissima con una certa fiducia in virtù delle individualità di spicco che caratterizzavano ogni reparto della squadra. Gyula Lazar, grande laterale idolo delle folle ungheresi, Zsengeller tecnico e opportunista, e soprattutto Giorgio Sarosi, centravanti, erede diretto di Schaffer, Schlosser e Orth, gli antichi condottieri del passato, infondevano fiducia a Karol Dietz, ai tifosi magiari e anche agli sportivi cosiddetti neutrali che mal sopportavano le imprese degli azzurri e lo avevano dimostrato ad ogni occasione.
Questa barriera di impopolarità dovuta principalmente a ragioni politiche, circondava gli italiani dall’inizio della manifestazione e Vittorio Pozzo abile psicologo seppe approfittare della situazione con la dovuta misura solleticando l’orgoglio di ognuno. Le squadre scesero in campo al meglio della loro inquadratura: azzurri al completo nella medesima formazione che già aveva affrontato Francia e Brasile, magiari con: Szabo; Polgar Biro; Szalay Szucs Lazar; Sas Vincze Sarosi Zsengeller Titkos. Arbitrava il francese Capdeville davanti a quasi sessantamila spettatori accorsi al Parco dei Principi il 19 giugno 1938.
La partita si svolse nei canoni caratteristici delle due scuole. Ungheresi subito in avanti con trame fitte ed eleganti, ma già al 6′ la manovra azzurra apre ampi squarci nella difesa granata. Andreolo interviene su un corner dei magiari ed allunga sulla fascia destra a Serantoni, che fa viaggiare Biavati. Rincorsa e centro per Piola che fa proseguire la palla verso Colaussi. Il triestino irrompe in velocità e scaraventa in rete. Gioco di prima in velocità, tre passaggi e gol. Sembra facile… Un minuto più tardi pareggiano i magiari con Titkos. Il tiro incrociato dell’ala inganna Olivieri e termina in rete. Gli azzurri riprendono le fila del gioco senza tentennamenti e dopo aver colpito i legni Piola raccoglie un magico allungo di Meazza e batte imparabilmente Szabo. Ancora Meazza al 35′ fa viaggiare Colaussi sulla sinistra: breve rincorsa, diagonale incrociato e gol.
Il fatto è che nel frattempo Leonidas aveva affinato le sue qualità di predatore d’area, che di lì a poco ne avrebbero fatto il più classico e spettacolare dei centravanti. Nel ’32, due anni dopo l’inizio dell’avventura col Bonsuccesso, il ragazzo (diciannove anni appena) era in Nazionale. Debutto con fuochi d’artificio: entrato nella ripresa durante un’amichevole con l’Uruguay, segnò subito una doppietta. Passato al Penarol, dove giocò da maggio a settembre del ’33 (16 partite e 11 reti), rientrò presto in Brasile, al Vasco da Gama. Dopo il successo immediato in campionato, e dopo la partecipazione infausta al Mondiale del ’34 (una sola partita, un suo gol per il Brasile) il globetrotter del gol cambiò ancora casacca passando al Botafogo nel ’34 e al Flamengo nel ’36. Con la maglia rossonera vinse i titoli del ’36, ’37 e ’39, e la classifica dei marcatori nel ’38, ’39 e ’40, quest’ultimo segnando 43 reti in una sola stagione.
Al Mondiale di Francia diede spettacolo, anche se la Selecao non riuscì ad andare oltre la finale di consolazione: proprio in quell’ultimo atto, inutile per la squadra, il «Diamante nero» alimentò la sua leggenda con una doppietta che lo portò saldamente (e definitivamente) al comando della classifica marcatori con otto reti. Peccato che in semifinale il Ct Pimenta avesse deciso di risparmiarlo contro l’Italia, per averlo fresco in una finale che i verdeoro non raggiunsero mai. Nel ’40 il campione non poté dire di no: fece la valigia e si trasferì al Boca Juniors, dove restò due anni soffrendo di saudade. Riprese al volo il treno per il Brasile e conobbe ancora momenti di gloria al San Paolo. Al rientro in patria, regalò alla sua nuova società ottomila nuovi abbonati, e un “tutto esaurito” da 72.218 spettatori in occasione dell’ennesimo debutto. Si divertì parecchio col San Paolo, vincendo cinque titoli (nel ’43, ’45, ’46, ’48 e ’49).
LA CLASSIFICA MARCATORI di Francia 1938
8 reti: Leonidas (Brasile);
5 reti: Piola (Italia), Zsengeller (Ungheria);
4 reti: Colaussi (Italia), Wilimowski (Polognia), Wetterström (Svezia), Sarosi I (Ungheria);
3 reti: Romeu (Brasile), Abegglen III (Svizzera), Nyberg (Svezia);
2 reti: Nejedly (Cecoslovacchia, 1 rigore), Peracio (Brasile), Nicolas (Francia, Maquina (Cuba), Dobay (Romania), H. Andersson (Svezia), Titkos e Toldi (Ungheria);
1 rete: Isemborghs (Belgio), Roberto (Brasile), Kopecky, Kostalek e Zeman (Cecoslovacchia), Socorro, Sosa e Tunas (Cuba), Heisserer e Veinante (Francia), Gauchel e Hahnemann (Germania), Ferraris II e Meazza (1) (Italia), Brustad (Norvegia), Scherfke II (Polonia), Covaci e Baratki (Romania), Jonasson e Keller (Svezia), Bickel e Walaschek (Svizzera), Kohut (Ungheria);
Autoreti: Lörtscher (Svizzera) pro Germania, Eriksson (Svezia) pro Ungheria
- ritirata a causa dell’Anschluss