A Noi! Quel che resta del fascismo nell’epoca di Berlusconi, Grillo e Renzi

Nella lingua italiana c’è una parola che, da più di novant’anni, non è mai passata di moda: “fascismo”. Definisce il Ventennio di Mussolini da cui, già nel ’45, abbiamo preso espressamente le distanze. Eppure da allora non abbiamo mai smesso di utilizzare l’aggettivo “fascista” per bollare uomini politici, movimenti, ma anche gruppi sociali e persino comportamenti comuni. In questo saggio, Tommaso Cerno parte da una semplice osservazione linguistica per riflettere sull’Italia di oggi. Perché continuiamo a usare un termine legato a un periodo storico ormai morto e sepolto? Vuol forse dire che qualcosa, di quel periodo, è rimasto nel modo di essere di noi italiani? Unendo analisi storica e interpretazione dell’attualità, Cerno va alla ricerca di figure carismatiche, scelte politiche e fenomeni sociali che mostrino una matrice comune con l’era del Duce. È solo un caso che Craxi e Berlusconi, come Mussolini, abbiano frequentato una scuola religiosa per poi concludere gli studi in un istituto laico? E, ancora scavando nelle vite dei nostri leader, cosa possiamo capire dal loro rapporto con mogli e amanti? Ma l’analisi di Cerno non si ferma alle biografie: interpreta gli stili di comunicazione, dai comizi al balcone del Duce agli hashtag di Renzi; sfata l’idea che certi comportamenti siano tipici del nostro tempo (che cosa successe dopo il terremoto nel Vulture del 1930? E dopo quello dell’Aquila nel 2009?); individua pregiudizi e forme di discriminazione che portano dal Ventennio all’affare Boffo. E che dire dei disinvolti ribaltamenti di potere, dalla notte del Gran Consiglio del Fascismo a #enricostaisereno? Basato su un’accurata ricerca storica, ma raccontato con ritmo battente, A noi! è un’acuta e originalissima lettura della nostra Storia e del nostro presente. Che ci fa capire chi siamo stati, chi ci ha governato e ci governa. E soprattutto chi siamo, noi italiani.

Prologo

Si dice che un bambino nasca con la camicia, quando viene alla luce avvolto nel sacco amniotico. Quel sacco sembra un abito, cucito addosso durante i nove mesi dentro il ventre di mamma. E noi di chi siamo figli? L’Italia in cui viviamo, l’Italia del nostro Ventennio, quello che chiamiamo l’epoca di Berlusconi e Renzi, è nata con la camicia?

Proviamo ad azzardare un’ipotesi: l’Italia è nata con la camicia nera. Proprio così, fasciata nel sacco amniotico del fascismo, da cui cerca a fatica di liberarsi da settant’anni, senza riuscirci davvero. Nel dopoguerra la retorica antifascista può avere dato l’impressione di un taglio netto con i vent’anni precedenti, ma come il “politicamente corretto” non cancella il razzismo, non ridà la vista a un cieco chiamandolo non vedente né l’affermazione di essere antifascista, per quanto eticamente giustificabile, non basta a cancellare ciò che del fascismo è dentro di noi. Dentro di noi perché italiano come noi, forse più di noi.

In tutto il corso della sua storia, il fascismo fu senza dubbio un fenomeno rivoluzionario, giovanile, si direbbe oggi “rottamatore”. Mussolini contribuì a ringiovanire l’Italia, a partire dalla sua classe politica, così come consentì per la prima volta nella storia del nostro Paese ai ceti medi di entrare nelle stanze del potere. Questo significa che ebbe un legame con il Paese molto più radicato, profondo, osmotico di quanto si pensi. Un legame possibile solo quando c’è un collante. E questo collante viene proprio dall’essenza dell’italiano, dalle radici del nostro modo di essere, dal nostro rapporto con il potere, da ciò che non muta sulla nostra penisola al di là del regime o del governo, più o meno democratico, che ci capita di eleggere o di contestare.

Impegnati come siamo a ripeterci che il fascismo è finito, oppure che si manifesta solo nei simboli esplicitamente esibiti del regime, dentro i partiti dell’ultradestra xenofoba, che alzano le croci celtiche nelle manifestazioni, non ci rendiamo conto di una cosa: quei militanti post-fascisti sono riconoscibili prima ancora che espongano il proprio pensiero, mentre il fascismo del Ventennio fu un grande movimento di massa. Se ci ostiniamo a cercare il fascismo lì dove è fin troppo facile trovarlo, non facciamo altro che insistere nel non vedere. E perché lo facciamo? Perché abbiamo paura di ritrovarlo dove non ce lo aspettiamo più, nel nostro modo di essere quotidiano, nei nostri difetti di Paese, nel nostro sistema politico e sociale. Annidato là dove sempre è stato, nell’angolo buio della Repubblica che preferisce puntare i fari altrove, dove sa che fascismo non se ne vedrà.

Riflettiamo su un fenomeno mediatico di questi ultimi settant’anni. Ancora oggi se accendiamo il televisore e ci sintonizziamo su un dibattito politico, sentiamo spesso ripetere come un ritornello: «Siete fascisti!». Si ascolta così tante volte, da essere assaliti dalla curiosità di capire perché. Un giorno il fascista in questione è Matteo Renzi, tacciato di metodi spicci da destra e da sinistra, addirittura da una parte del suo stesso partito, il Partito Democratico; il giorno appresso, invece, ci si riferisce a Silvio Berlusconi, accusato di avere addormentato il Paese come un nuovo Duce, di averlo assopito in una sorta di Ventennio che potremmo definire, piuttosto che regime dal volto umano, regime dal mezzobusto umano, trattandosi di un’anestesia televisiva pressoché totale. Questa anestesia, però, ha generato la propaganda di governo, come tutti i regimi democratici e non, ma ha generato anche i suoi anticorpi: l’antiberlusconismo militante. Un terzo giorno l’epiteto di fascista è attribuito alle epurazioni del Movimento 5 Stelle e a Beppe Grillo, accusato di essere l’uomo solo che decide per tutti, quando il tal deputato è espulso dal gruppo parlamentare perché “ribelle” alla linea ufficiale. Fino a Matteo Salvini, il leader leghista dell’era post-bossiana, il quale, abbandonato il divino Po e la sacra ampolla, si fa crescere la barba e si reinventa una specie di marcia su Roma per allargare il consenso, ormai troppo stringato, del suo Nord.

La morale è che, almeno a parole, qui siamo tutti fascisti, destra e sinistra, alti e bassi, belli e brutti.

Saremo anche il Paese delle generalizzazioni, ma c’è davvero da chiedersi cosa stia capitando a noi italiani. Perché, all’improvviso, ci accusiamo l’un l’altro di fascismo? Perché dopo la fine del regime, dopo l’epopea della Resistenza, dopo sette decenni di democrazia quella parola torna sulle labbra di tutti noi, usata con sufficienza, con disinvoltura? Forse perché il 1945, la data che mette fine ai regimi fascista e nazista in Europa, non è una data che l’Italia abbia davvero digerito. Certo sul piano ufficiale, nei proclami, nelle affermazioni di principio, così come nella retorica di Stato, il fascismo è morto e sepolto, giace sotto strati e strati di antidoto costituzionale, democratico, parlamentare.

Eppure, nella vita di tutti i giorni, nel profondo degli italiani, la censura del modus vivendi mussoliniano non corrisponde affatto a una cesura, perché molti atteggiamenti del regime – che già provenivano dal passato – si sono conservati, pur con i naturali ammodernamenti, nel futuro: pensiamo ad esempio all’Italia bigotta e bacchettona che fa e non dice, al maschilismo diffuso in tutte le fasce sociali. Pensiamo alla distanza fra regole scritte e regole davvero applicate. Pensiamo all’usanza politica del dossier, all’insabbiamento dei misteri di Stato, alla corruzione come sistema di governo, all’utilizzo dell’informazione come macchina per controllare l’opinione pubblica prima ancora che per informarla, alle regole non scritte delle gerarchie comuniste del dopoguerra, dove il valore della “fedeltà coniugale” garantiva la scalata ai vertici del PCI (Partito Comunista Italiano) proprio come del PNF (Partito Nazionale Fascista). Per arrivare, infine, all’uomo forte, al leaderismo craxiano, berlusconiano, renziano, incarnazioni del bisogno primario di un capo.

Sono solo coincidenze? No, siamo nati davvero con la camicia nera. C’è un filo conduttore che unisce il fascismo “a noi”, proprio come era il saluto ai tempi del Duce. A noi del fascismo è giunto più di quello che vogliamo ammettere. Un’eredità che arriva dritta nell’epoca di Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Un’eredità che non si manifesta nell’esibizione di simboli e bandiere, ma nei piccoli gesti, nei modi di pensare, nelle abitudini malate del nostro Paese che non mutano con i governi. Abitudini che ritroviamo nel fascismo di Benito Mussolini, nei risvolti del regime e del carattere del Duce che facevano del fascismo e del suo capo, prima ancora che una dittatura e un dittatore, un modello d’Italia e di italiano, simili nei difetti al popolo. Difetti che non sono scomparsi, sono solo mutati di sembianza. E che ritroviamo ancora oggi. Se sappiamo dove andare a cercarli.

GLI STEREOTIPI DELLA POLITICA ITALIANA

Mussolini: un italiano qualunque

Partiamo con una domanda facile: Benito Mussolini era italiano? La risposta è sì. Ma se ci chiedessimo invece: che tipo di italiano era? Ecco che la domanda diventerebbe molto complessa.

La risposta più banale, e comoda, è che Mussolini è stato un dittatore folle, e quindi abbia rappresentato un’anomalia del sistema politico italiano, talmente unica e irripetibile da non poterlo considerare figlio del Paese che ha prima conquistato, poi mandato in guerra, infine combattuto in qualche modo attraverso la Repubblica sociale. Eppure è evidente che, detta così, si tratta di una semplificazione.

A distanza di oltre settant’anni dalla caduta del fascismo nel 1943, dalla liberazione dell’Italia (dal fascismo mussoliniano di Salò e dall’occupazione nazista del Nord), il 25 aprile 1945, fino alla morte di Benito Mussolini, il 28 aprile 1945, possiamo affermare che l’Italia – e soprattutto gli italiani – non abbiano affatto completato (a volte penso che forse nemmeno l’abbiano davvero cominciata) la resa dei conti con il fascismo.

Sulla carta, il regime mussoliniano – perché il fascismo era Mussolini e viceversa – è stato un dramma collettivo, uno sbaglio di natura, una sorta di anestesia totale. Qualcosa che l’Italia respinge dal profondo, a cose fatte, come ancora oggi tende a fare, rigetta come un cibo avariato dopo averlo ingerito.

Tutto lascia pensare che sia stato un fattore esogeno, distinto dal nostro essere italiani, ad avere reso possibile la scalata al potere di un “marziano” di fronte a un popolo inerme. Fino alla caduta e alla liberazione, per mano straniera, del nostro Paese, vittima di un fenomeno soprannaturale e non vittima, come invece in larga parte è stato, di se stesso.

La Costituzione repubblicana vietò la rinascita del Partito fascista, eppure nulla di concreto fu fatto alla fine della guerra per eliminare i gerarchi dal governo del Paese. A parole eravamo all’improvviso i primi nemici del nostro regime caduto; nei fatti passammo a una nuova fase senza che avvenisse una cesura netta. Non ci fu nulla che vagamente potesse somigliare a un processo di Norimberga in Italia. Come vedremo, perfino i gerarchi più sanguinari spesso furono reinseriti nella burocrazia di Stato. Così come i pochi che furono processati risposero di reati minori, quasi a negare l’esistenza di un retaggio fascista, con tutto ciò che significa, anche dentro l’esercito italiano, in modo che il regime andasse via via mimetizzandosi dentro il nuovo corso repubblicano anziché venirne espulsi con disonore.

Per ottenere velocemente una pacificazione nazionale ed evitare che l’epurazione danneggiasse le strutture burocratiche e istituzionali, e rallentasse la ricostruzione materiale del Paese, il 22 giugno 1946 entrò in vigore un decreto di amnistia e indulto proposto dall’allora ministro di Grazia e Giustizia del governo De Gasperi, il segretario del PCI Palmiro Togliatti, che comprendeva il condono della pena per reati comuni e politici, dal collaborazionismo con i tedeschi fino al concorso in omicidio, commessi in Italia dopo l’8 settembre 1943.

Nonostante le polemiche, l’amnistia Togliatti fu seguita da ulteriori indulti che ampliarono la casistica dei crimini condonabili: nel 1948 il sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri, Giulio Andreotti, elaborò un decreto con cui si estinguevano i giudizi ancora pendenti dopo l’amnistia del 1946, mentre nel 1953 e nel 1966 il limite temporale coperto venne esteso fino al 18 giugno 1948, per comprendere così anche tutti gli episodi di regolamento di conti dell’immediato dopoguerra.

Che italiano è stato, dunque, Benito Mussolini? Quanto somiglia all’Italia che ha conquistato? Quanto resta di quel Paese oggi, nei giorni in cui gli slogan fascisti tornano a riempire le pagine della cronaca e nei quali una certa mitologia autarchica, benché scolorita e affidata spesso a personaggi di dubbio spessore, sembra risorgere?

Non c’è nulla, nella storia personale del Duce, di così diverso dal Paese che ha dominato e portato dritto dentro il dramma della guerra. Le origini umili, l’infanzia trascorsa fra la strada e il collegio, la migrazione all’estero per la difficoltà a trovare lavoro e l’impegno politico, fra esaltazione ideale e conquista di un potere formale, al di fuori delle regole, ma a piccole dosi, come un’omeopatia della dittatura che modifica il corpo senza darne esatta percezione, rispecchiano la più italiana delle storie.

Si può dire che Benito Mussolini sarebbe potuto diventare un italiano come molti altri, un emigrante imbevuto di socialismo, come ce ne furono a migliaia in quegli anni. Diventò invece il Duce d’Italia; un destino, il suo, che giorno dopo giorno gli si è parato davanti. Un destino che percorse fino alla fine, trasformandosi davanti agli occhi degli italiani in qualcuno di loro, più grande di loro, capace di farli sentire a casa loro.

La mamma è sempre la mamma

Alessandro Mussolini e Rosa Maltoni si sposano nel 1882 a Predappio, un comune in provincia di Forlì. Lui è un fabbro e un militante socialista, lei la maestra elementare del paese, fervente cattolica e appartenente a una famiglia piccolo-borghese che mal digerisce il fidanzamento tra i due.

In Romagna, regione che fino a pochi decenni prima faceva parte dello Stato Pontificio, il rapporto tra la maggioranza cattolica e la sempre più numerosa minoranza laica, anticlericale e socialista è piuttosto teso, ma – come nella provincia descritta da Guareschi più di sessant’anni dopo – il compromesso è quasi sempre cercato e trovato.

A casa Mussolini, nella camera da letto, all’immagine della Madonna di Pompei fa da contraltare quella di Garibaldi: Rosa riesce ad avere la meglio sull’intransigenza di Alessandro, il quale le concede il matrimonio in chiesa e il battesimo dei figli, ma a questi ultimi lui impone nomi di rivoluzionari.

Il primogenito nasce domenica 29 luglio 1883 nel povero casolare a Varano dei Costa, sulle colline di Dovia, una frazione di Predappio: si chiama Benito Amilcare Andrea. L’11 gennaio 1885 nasce il secondogenito Arnaldo, mentre il 10 novembre 1888 arriva Edvige. La casa è piccola e misera, ma nel contesto dell’epoca la famiglia Mussolini non può essere considerata davvero povera, sebbene il latte sia un lusso quanto la carne per il brodo domenicale.

Arnaldo e Benito condividono, nella stanza della casa che funge anche da cucina, lo stesso letto in ferro costruito dal padre. I due da piccoli sono inseparabili, ma hanno caratteri estremamente diversi: quanto il più piccolo è tranquillo e mite, tanto il maggiore è un ribelle, «irrequieto e manesco», come lui stesso si ricorderà anni dopo.

Benito impara a parlare solo a tre anni, ma a parte questo la sua infanzia a Dovia non è diversa da quella dei suoi coetanei: il giovane Mussolini cresce scorrazzando tra i campi, si azzuffa con gli altri ragazzini ed è istigato dal padre – che lo educa, quando non è al lavoro o preso dall’impegno politico o all’osteria, alternando le cinghiate alla cultura rivoluzionaria – a risolvere da solo, con la violenza, i conflitti. Presto diventa il più rissoso della compagnia, un provocatore dal carattere chiuso e senza veri amici. A volte si isola facendo lunghe passeggiate tra le colline, e gli piace molto leggere i libri e le altre pubblicazioni raccolte dal padre.

A nove anni, per farlo diventare un «bravo giovinetto», la madre riesce a convincere papà Alessandro a spedire Benito in collegio a Faenza, affidandolo agli insegnamenti dei padri Salesiani, come molta futura classe dirigente italiana. Il luogo è un miscuglio maschilista di fede e ragione, di mistica e regolamenti paramilitari, la disciplina è rigida e la vita è piuttosto dura per il giovane e indisciplinato Benito, che ha ereditato dal padre la stessa insofferenza per l’autorità e le stesse idee sulla religione: il ragazzo, che ha fatto la prima comunione e va a messa solo per compiacere la madre, è costretto a partecipare quotidianamente alle funzioni religiose e ai suoi rifiuti corrispondono severe punizioni.

Sono due anni lunghi e difficili: Benito è un tipo sveglio, un giovane capace; eppure l’austerità degli insegnanti e il diverso trattamento riservato ai collegiali a seconda del ceto sociale lo segnano e lo indignano profondamente. Finché il risentimento e la ribellione sfociano nella violenza e, durante una lite con un compagno, Benito lo ferisce con un coltello a una mano. In seguito all’episodio la permanenza dai Salesiani è impossibile (non viene espulso solo per l’imminenza della fine dell’anno scolastico), così l’anno successivo è iscritto a Forlimpopoli in un istituto laico diretto da Valfredo Carducci, fratello del poeta. Nel nuovo istituto Benito si trova bene e, nonostante qualche altro episodio di cattiva condotta, nei sei anni lì si distingue come alunno brillante, soprattutto in storia, geografia e letteratura italiana. Nel 1901 completa gli studi ottenendo la licenza d’onore.

Ci sono curiose coincidenze tra la giovinezza di Mussolini e quella di altri due importanti politici italiani che saranno spesso paragonati a lui: Craxi e Berlusconi. Tutti e tre sono primogeniti di tre fratelli, tutti e tre, sebbene provenienti da contesti sociali decisamente diversi, hanno almeno in parte compiuto gli studi in un collegio di religiosi per poi terminarli in un istituto laico. Il giovane Bettino Craxi non è un grande studioso, come Benito da piccolo è manesco, ma al suo contrario è molto religioso: è l’impegno politico del padre che a diciassette anni lo converte alla politica, al socialismo.

Anche Silvio Berlusconi compie gli studi dai Salesiani: è un allievo modello, di grande guizzo e ottimi risultati, tanto che i compagni si rivolgono a lui per farsi aiutare con i compiti; secondo qualche voce (poi smentita dal diretto interessato) si fa pagare, inaugurando precocemente quella vocazione al business e al guadagno che ne farà uno degli uomini più ricchi e potenti d’Italia.

Il giovane Berlusconi, al contrario di Craxi e Mussolini che non completeranno mai gli studi, non s’interessa di politica, non da ragazzino, e si laurea con lode in Giurisprudenza all’Università Statale di Milano, garantendosi il titolo di “dottore” con cui i suoi fedelissimi continueranno a rivolgersi a lui, anche quando sarà salito all’apice del potere politico.

Curiosamente, la madre di Berlusconi e di Mussolini (così come quella di Andreotti) condividevano il nome: Rosa.

Rosa Bossi Berlusconi, moglie di Luigi e madre di Silvio, Paolo e Maria Antonietta, era una tipica “sciura” lombarda, scomparsa nel 2008 a 97 anni. Una sorta di regina madre, arzilla e orgogliosa del figlio, mamma Rosa è sempre stata la prima e più accesa fan del premier di Arcore, il quale ricambiava con una sconfinata devozione: un autentico mammone che le telefonava più volte al giorno per sapere come stava. E poi i pranzi di famiglia: «Ogni domenica Silvio mi invita ad Arcore. Può avere qualunque personaggio a tavola, ma mi fa sedere sempre alla sua destra. Quando parlo tutti mi stanno ad ascoltare, con attenzione e con rispetto».1

Vera e propria macchina di consenso tra l’elettorato anziano, si prestava alle esigenze elettorali del figlio con le visite ai centri anziani del Milanese, con i siparietti al seggio elettorale e con le dichiarazioni rilasciate ai cronisti dove incensava e proteggeva Silvio ed esprimeva graffianti giudizi sui suoi avversari politici. Tre anni dopo la sua morte, nei mesi degli scandali del Rubygate e del “bunga bunga”, fece polemica l’uso di una di queste sue dichiarazioni nel trailer di Silvio Forever, un documentario biografico sull’ex premier: «Non si vedrà mai una fotografia di Silvio che è in giro con le donne o altro…». Chissà come avrebbe reagito davanti a quegli scandali la pia Rosa, che schiaffeggiò il figlio solo una volta, racconta lui, per essere andato (e caduto) col motorino, cosa che gli aveva severamente vietato.

D’altro canto, Rosa Berlusconi era una donna schietta e battagliera, come testimonia il leggendario episodio di guerra raccontato nell’opuscolo elettorale Una storia italiana: nel 1944, pochi mesi dopo la nascita della secondogenita Maria Antonietta, mamma Rosa a rischio della propria vita affrontò da sola su un treno diretto a Milano un ufficiale delle SS, riuscendo a impedirgli di arrestare una donna ebrea. La stessa determinazione che la fece resistere alla minaccia del mitra del soldato tedesco la trasferì a Silvio, preoccupato per l’imminenza della discesa in campo.

Nell’inverno 1993 mamma Rosella – com’era chiamata in famiglia – lo rassicurava motivandolo: «Se ti senti in dovere di farlo, devi trovare il coraggio di farlo».2 Probabilmente sono le stesse parole che l’altra mamma Rosa avrebbe sussurrato al piccolo Benito. Distante dal figlio solo all’apparenza, così come era Maria Ferrai, la madre di Craxi, nel momento della grandezza e, ancora di più, della caduta. Le tre mamme sono state probabilmente simbolicamente al fianco dei figli fino alla fine. Con l’occhio socchiuso, ma mai sbarrato, sui vizi e sui difetti di quei bambini diventati forse troppo grandi che la mamma italiana scorge nelle pieghe della voce prima ancora che nei resoconti dei giornali o delle televisioni.

Il 31 agosto 2008 muore la madre di Craxi. Le agenzie battono poche righe. Ma l’elemento inscindibile dell’italico rapporto madre-figlio è subito evidente anche in questo lutto, nel pieno della Seconda Repubblica, quando ormai gli scandali di Tangentopoli sembrano storia da studiare sui banchi di scuola. L’ultimo saluto a mamma Maria si tiene nella patria che ha accolto Bettino dopo la caduta, in Tunisia, ad Hammamet. Perché donna Maria vuole essere sepolta al fianco di suo figlio.

Ascesa, compromessi e scorciatoie di un capopopolo

Nel mix di musica e amori, grandi passioni italiane, a partire dai capi per discendere ai sudditi, è proprio negli anni dell’adolescenza passati a Forlimpopoli che Mussolini inizia ad approcciare quella che sarà una delle sue grandi passioni: il sesso.

Si vanterà di aver perso la verginità con una prostituta di mezz’età, piuttosto in carne, anzi grassa, spendendo mezza lira in un bordello della cittadina. Insieme al sesso, in quegli stessi anni sboccia in lui anche la passione socialista e maturano nella mente del futuro Duce, che sta diventando un uomo, quelle idee e quegli ideali appresi dalle letture e dai discorsi del padre: frequenta la locale sezione socialista e si avventura in qualche orazione occasionale, proto-comizi dove lentamente si scioglie, modula le espressioni, prova i gorgheggi e le intonazioni che tutta l’Italia qualche decennio più tardi osserverà e ascolterà nei celebri soliloqui dal balconcino di piazza Venezia.

Una certa vocazione artistica d’attore accompagna questi anni dell’italiano Mussolini, che dentro il teatro e la recitazione cerca l’anima del ribelle. Non ha mai davvero in mente la carriera artistica, ma ha ingordigia di palcoscenico, brama di stare al centro dell’attenzione e di poter parlare al pubblico-popolo.

Il 30 gennaio 1901, in occasione di uno spettacolo scolastico, Benito è scelto tra gli alunni dell’istituto per pronunciare una commemorazione di Giuseppe Verdi, appena scomparso: Mussolini improvvisa un discorso che invece di concentrarsi sul compositore di Busseto e sulla sua musica finisce per risultare un’accalorata digressione sulla situazione politica e sociale dell’Italia risorgimentale. Sebbene la performance gli faccia meritare una menzione di due righe sull’«Avanti!», non è ancora iscritto o inquadrato nel partito: la sua è per ora solo un’inclinazione dettata più dall’influenza paterna e dal carattere ribelle che da altro.

Benito si considera comunque un socialista e a diciotto anni, ottenuto il diploma, intraprende la via dell’insegnamento, desideroso di allontanarsi dal comune natio. Ma i suoi numerosi tentativi di trovare lavoro non vanno a buon fine: Mussolini partecipa invano a concorsi del tutto simili ai concorsoni pubblici di oggi. In una lettera a un amico racconta che a uno di questi «eravamo trentadue cani per ossi quattro, molti mastini eran già bianchi per antico pelo, altri andavano onusti per titoli, decorazioni, medaglie. Ed io – ultimo forse fra senno cotanto – dalla giovane età, dalle singolari parvenze fui scartato».1

Potrebbe lavorare nell’officina del padre, ma non vuole accontentarsi, non vuole restare a Dovia. Nelle lettere che scrive agli amici alterna lo sconforto e il vittimismo a una profonda sicurezza di sé, alla presunzione di essere diverso dagli altri. Si dedica all’alcol e alle donne, ma anche all’arte: scrive poesie secondo lui meritevoli di pubblicazione, prende lezioni di musica appassionandosi al violino, quello che per tutta la vita considererà il suo svago preferito.

Alla primogenita Edda farà prendere lezioni dall’età di cinque anni; la figlia prediletta in un’intervista citerà la musica come uno dei più stretti legami con il padre: «Mi ricordo di una volta che suonavamo assieme in cucina, che facevamo un duetto. Eravamo due buoni dilettanti».2

La presuntuosa velleità artistica curiosamente si ritrova anche in altri grandi leader della storia: nelle modeste tele di Hitler o in quelle più riuscite di Churchill, nelle performance al sassofono di Bill Clinton o nel Berlusconi giovane chansonnier sulle navi da crociera. In fondo i capipopolo sono veri e propri artisti che plasmano le loro opere manipolando le masse, drammaturghi di una narrazione collettiva, registi dei destini di intere nazioni.

Dopo quasi un anno di inattività finalmente il maestro Mussolini ottiene la sua prima supplenza a Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia, dove se la cava bene ma non viene riconfermato. Il motivo è da ricercare nello scandalo che dà intrecciando una relazione con una coetanea il cui marito è sotto le armi.

Così, pur di non tornare a Dovia – dove, tranne che per brevi visite, non tornerà più –, decide di emigrare in Svizzera con in tasca i pochi risparmi accumulati nei mesi di supplenza e le lire prestate dalla madre, alla quale mente dicendo di avere a Ginevra un posto assicurato da un conoscente. Il ribelle Mussolini invece ha solo voglia di andarsene e di tentare la fortuna all’estero: parte il 9 luglio 1902. La sera stessa, a Chiasso, da un giornale apprende la notizia dell’arresto del padre, coinvolto in disordini durante le elezioni amministrative a Predappio. Benito senza troppi dubbi o rimorsi prosegue e il giorno dopo è in Svizzera.

Là Mussolini è uno dei tanti italiani in cerca di lavoro: si adeguerà a portare mattoni in un cantiere, ma è una mansione troppo dura e mal pagata. Si ritrova presto senza un soldo, finisce a dormire sotto un ponte e viene arrestato per vagabondaggio. Non sapendo come sbarcare il lunario si rivolge ai compagni socialisti, che gli offrono la possibilità di collaborare con l’«Avvenire del Lavoratore», il giornale del Partito Socialista Italiano in Svizzera.

I suoi articoli lo fanno apprezzare negli ambienti socialisti e gli consentono di tenere conferenze e dibattiti, dove può esprimere il proprio ateismo e le proprie idee rivoluzionarie, dibattiti che gli causano altri problemi con la legge. Alternando attività politica con lavori saltuari, impara il tedesco e il francese e cerca di approfondire la propria cultura politica. Torna per un breve periodo in Italia per l’aggravarsi delle condizioni di salute della madre, ma riparte subito: il suo passaporto sta per scadere e Mussolini ha intenzione di evitare la leva obbligatoria.

La sua attività di conferenziere anticattolico inizia a riscontrare un certo successo tra gli emigrati italiani. Intreccia amicizie e rapporti importanti per il prosieguo della sua carriera politica, in particolare con Angelica Balabanoff (che diventerà negli anni milanesi sua amante) e Giacinto Menotti Serrati.

A Ginevra prova a iscriversi all’università, ma viene arrestato quando scoprono che ha falsificato la scadenza del suo passaporto: solo grazie alle proteste condotte dai suoi compagni di partito evita il rimpatrio in Italia. La sua permanenza dura, però, soltanto pochi altri mesi durante i quali continua a dividersi tra il lavoro manuale, l’attività di conferenziere, l’irregolare studio alla facoltà di scienze sociali e una studentessa polacca di medicina. Di ritorno in Italia, ha ormai maturato un’adesione convinta al sindacalismo rivoluzionario.

Il 15 settembre 1904 nasce Umberto II di Savoia e per festeggiare il nuovo erede al trono è concessa un’amnistia che copre anche il reato di diserzione semplice per il quale Mussolini era stato condannato in contumacia. Decide perciò, anche per le insistenze della madre, di non andare negli Stati Uniti, dove le conoscenze di Serrati gli potevano garantire un sicuro avvenire nelle organizzazioni sindacali italiane, ma di tornare in Romagna. Adempie gli obblighi di leva nel reggimento dei Bersaglieri di stanza a Verona, distinguendosi come un buon soldato. Considerati i suoi trascorsi al collegio di Faenza e la sua fede politica, probabilmente si comporta da soldato modello solo per evitare guai, visto che a causa dei suoi precedenti è tenuto sotto stretta sorveglianza: le improbabili dichiarazioni patriottiche e quasi filo-irredentiste di una lettera scritta in quei mesi dal “sindacalista rivoluzionario” Benito Mussolini al suo comandante di compagnia – e pubblicata per la prima volta nel 1922, nelle settimane successive alla marcia su Roma – attestano il camaleontico opportunismo del futuro Duce, la peculiare capacità di bilanciare il proprio estremismo politico con la necessità di compiacere il prossimo, abilità indispensabile per una carriera politica, ieri come oggi.

Il 4 settembre 1906 Benito Mussolini è congedato con una dichiarazione di buona condotta e un paio di mesi dopo è a Tolmezzo, in Carnia, a ricoprire il ruolo di maestro. L’insegnamento non gli interessa, è per lui semplicemente un mezzo di sostentamento, e l’esperienza si rivela fallimentare molto più di quella di Gualtieri.

Mussolini ne guadagna solo poche lire, l’astio della popolazione locale e una forma di gonorrea che lo tormenterà per anni. Il suo attivismo anticlericale e soprattutto la relazione con una donna sposata danno di nuovo scandalo nella comunità e, a fine anno, l’incarico non gli è rinnovato. Pensa di ritornare all’estero, ma ottiene l’abilitazione all’insegnamento del francese e nel febbraio del 1908 è assunto in una scuola tecnica di Oneglia, in Liguria.

Ormai scelta la via dell’impegno politico e del giornalismo, cerca solo un trampolino da cui spiccare il salto: grazie all’amicizia con Serrati, Mussolini riesce a farsi introdurre nella dirigenza socialista locale e a dirigerne così di fatto l’organo di stampa, «La Lima».

I quattro mesi a Oneglia sono la rivalsa dopo l’esperienza carnica: Benito si entusiasma per l’impegno giornalistico al punto da chiedere a Serrati di raccomandarlo per la direzione della «Provincia di Mantova», ma non se ne farà nulla. Il collegio chiude i battenti alla fine dell’anno, lasciando ancora una volta senza lavoro Mussolini, il quale pur trovandosi bene in Liguria è costretto a fare ritorno in Romagna.

Nel 1908 in Romagna sono in corso agitazioni sociali tra gli operatori dell’agricoltura: i mezzadri cercano di ottenere maggiore indipendenza dai proprietari terrieri e i braccianti chiedono che sia loro garantito il lavoro messo in discussione dalla repentina meccanizzazione del settore e dall’usanza dei contadini di cooperare vicendevolmente nella trebbiatura del grano. Mussolini prende le parti dei braccianti e partecipa in prima persona agli scontri e agli scioperi.

Tiene comizi in cui esorta alla resistenza e alla lotta: le frasi semplici e spezzate – dovute a una rozza, quasi rudimentale capacità oratoria collaudata nel periodo svizzero – fanno presa sulla folla alimentandone l’entusiasmo. Una banale denuncia per minacce fornisce il pretesto alla polizia di Forlì per arrestarlo. Condannato inizialmente a tre mesi di reclusione, in appello la pena è ridotta a dodici giorni di carcere. È questo uno dei punti di svolta della vita di Mussolini: dall’essere un italiano come tanti Benito diventa per caso un eroe, un martire (per quanto locale) della causa. E avendone piena consapevolezza cercherà di trarne il maggiore profitto possibile.

In seguito alla scarcerazione, i socialisti forlivesi gli propongono una carica direttiva, ma Mussolini rifiuta: non è interessato alla politica in sé, ha piuttosto l’ambizione di diventare giornalista professionista. Pochi mesi dopo, probabilmente grazie ai contatti di Serrati e di Angelica Balabanoff, i socialisti trentini gli offrono il ruolo di segretario nel Segretariato trentino del lavoro e la direzione dell’«Avvenire del Lavoratore». Mussolini parte nel febbraio del 1909 e resta nell’Impero austroungarico fino a fine settembre.

Vive l’impiego organizzativo come una seccatura, ma è presto coinvolto dall’attività giornalistica. Poche settimane dopo il suo arrivo scrive: «Io non sono affatto lieto della mia posizione attuale. Non invecchierò quale stipendiato del Partito socialista austriaco – oh, no – quando saprò strimpellare il violino, girerò il mondo piuttosto che vivere agli ordini dei nuovissimi padroni. Scrivo articoli di quinta colonna sul “Popolo” – socialista – ma di proprietà del dott. Battisti e non è improbabile che mi venga offerta la redazione. Accetterei. Quanto al mio avvenire non ho piani fissati. Vivo, come sempre, alla giornata».3

A Trento ha la possibilità di frequentare la locale fornitissima biblioteca: spende molto tempo approfondendo i suoi studi, aggiornandosi e affinando le sue conoscenze. Mussolini è una spugna che assorbe dalle letture ciò che è congeniale alle sue idee, che è funzionale ai suoi articoli e ai suoi comizi. Comincia a maturare in lui una più personale visione ideologica: già nel periodo svizzero aveva avuto modo di conoscere le idee di Nietzsche, idee approfondite durante il soggiorno ligure e che ha finito per preferire a quelle di Marx, vedendovi il modello dell’uomo del futuro, capace di andare oltre i soffocanti schermi marxisti. Mussolini dichiarerà di essere rimasto affascinato dalla frase «vivete pericolosamente».4 Subisce anche l’influenza di riviste come «Il Leonardo» e «La Voce», apprezzandone la filosofia pragmatica, d’azione e l’indipendenza ideologica, iniziando a svelare una certa insofferenza nei confronti della politica socialista dettata dal partito.

A Trento l’attività di Mussolini è convulsa: oltre allo studio e agli esperimenti letterari si dà molto da fare per scuotere la politica locale dalla «tradizionale apatia». Il Partito socialista è una piccola minoranza e anche il mondo liberale e quello irredentista non riescono a scalfire l’egemonia cattolica, ma con l’arrivo di Mussolini la tiratura dell’«Avvenire del Lavoratore» aumenta della metà e, grazie alla sua collaborazione, «Il Popolo» e la «Vita Trentina» conoscono un’aggressività mai vista prima: ogni pretesto è usato per attaccare i cattolici – in particolare De Gasperi – sul piano sia sindacale sia culturale.

La campagna anticlericale di Mussolini comprende anche conferenze, dibattiti e comizi, con toni che imbarazzano lo stesso Cesare Battisti, fondatore del settimanale socialista dell’«Avvenire del Lavoratore» e del «Popolo».

«Il Trentino», il giornale di De Gasperi, accusa Mussolini di considerare «la vita pubblica come un torneo di insulti e bastonate».5 Questo attivismo gli porta un certo successo, ma gli causa non pochi problemi con le autorità austriache: in pochi mesi subisce undici sequestri e sei condanne per violazione della legge sulla stampa. A settembre viene arrestato con l’accusa di cospirazione, ma sebbene il processo si concluda con la sua assoluzione, Mussolini il 26 settembre 1909 viene espulso per il mancato pagamento di una multa.

L’espulsione solleva le proteste dei socialisti trentini e ha eco sulla stampa socialista italiana: anche l’«Avanti!» e il «Resto del Carlino» scrivono dell’episodio. A Montecitorio vengono presentate due interrogazioni parlamentari al riguardo, ma senza esito. Mussolini è costretto a ritornare a Forlì.

Nei mesi successivi cerca di campare scrivendo un romanzo anticlericale e il saggio sulla sua esperienza trentina Il Trentino veduto da un socialista, che verrà pubblicato da «La Voce» di Prezzolini nel 1911.

Sono mesi difficili, soprattutto economicamente, e per sostenersi lavora nell’osteria gestita dal padre a Forlì. Lì conosce Rachele Guidi, che corrisponde il suo amore: i rispettivi genitori sono contrari alla relazione, forse perché segretamente temono che i due siano fratellastri, ma Benito racconta di essersi imposto sfoderando una pistola e minacciando di uccidere lei e suicidarsi se non avesse ottenuto il loro benestare: «Qui ci sono sei colpi. Uno per lei e gli altri cinque per me».6 Rachele è già incinta quando i due si uniscono nel gennaio del 1910 senza alcuna “borghese” ufficialità: si sposano civilmente solo nel 1915, durante una licenza di Benito dal fronte. La coppia va ad abitare in un povero bilocale ammobiliato a Forlì, ma la loro condizione economica è così precaria che quando a settembre nasce Edda non hanno nemmeno il denaro per comprare una culla.

Grazie ai successi trentini che gli hanno garantito una certa popolarità, nello stesso periodo a Benito viene offerto di dirigere il neonato settimanale della federazione socialista forlivese, a cui dà il titolo di «Lotta di Classe». Lo scopo della pubblicazione è quello di consolidare le posizioni socialiste contro la locale egemonia dei repubblicani. Mussolini ci riuscirà grazie all’intransigenza e all’accesa retorica che aveva già usato a Trento: quello che sarà definito «il magnetismo della parola» viene a Forlì messo a punto. Il suo stile semplice, fatto di periodi brevi, di concetti tesi a suscitare emozioni più che ragionamenti, ha grande effetto sul pubblico: è l’inconsapevole nascita della propaganda di massa che non ha mai smesso – aggiornandosi continuamente nelle forme – di plasmare la discussione politica italiana.

In tempi molto più recenti esperti della comunicazione pubblicitaria televisiva hanno ottenuto con le masse i medesimi risultati politici ottenuti dal giornalista romagnolo a inizio del secolo scorso, mentre oggi è il linguaggio di internet, dei tweet e delle slide a farlo: l’evolversi della lingua del popolo impone un aggiornamento alle forme di propaganda usate dai capipopolo, ma il rapporto tra masse e leader è rimasto sostanzialmente lo stesso.

Dettandone già di fatto la direzione politica, Mussolini ottiene anche la segreteria della federazione locale, compiendo il passo da agitatore a dirigente del partito. Lo scapestrato ragazzo di Dovia, l’indigente emigrato italiano in Svizzera ha ormai smesso di essere uno come tanti altri e si candida a guidare tutto il socialismo romagnolo. Probabilmente non ne è consapevole, ma la direzione di «Lotta di Classe» costituisce quel trampolino che gli permetterà di dimostrare quella grandezza di cui era superbamente convinto da giovane.

Nell’estate del 1910 in Romagna si raggiunge l’apice delle agitazioni contadine che da anni ruotano attorno all’impiego nelle campagne delle trebbiatrici. Mussolini appoggia l’intransigenza dei braccianti contrari alla meccanizzazione del lavoro, alimentando una polemica violentissima con i repubblicani. Il clima già teso viene esasperato al punto che solo gli interventi dei Carabinieri impediscono il degenerare in violenza. Alla fine dell’anno lo scontro vede le cooperative repubblicane (il cui segretario è il diciannovenne Pietro Nenni) avere la meglio, grazie alla firma degli accordi tra mezzadri e braccianti. La linea rivoluzionaria dei socialisti forlivesi ne esce sconfitta, ma permette loro di guadagnare visibilità. Mussolini interviene in rappresentanza dei socialisti romagnoli al Congresso nazionale del partito (il «Giornale d’Italia» lo definisce «un contadino dall’oratoria a scatti»), ma la linea riformista esce nettamente vincitrice.

Su «Lotta di Classe» il rivoluzionario e intransigente Mussolini promuove allora la scissione dal partito dando il via a una lunga discussione: come certi rottamatori di oggi pensa che il partito sia un grande cadavere e ambisce a cambiarlo. Mussolini cerca un pretesto per poter insistere e coinvolgere più sezioni nel suo progetto, e quel pretesto sembra arrivare con la crisi del governo Luzzatti del 1911, quando i deputati della frangia moderata del Partito socialista considerano seriamente l’idea di partecipare al governo del Paese. Giolitti commenta la polemica con parole che profetizzano il destino della sinistra italiana fino ai giorni nostri: «I socialisti si dividono sempre, non si uniscono mai. Che peccato!».7

Tuttavia il partito non si spacca: Mussolini e le fedelissime sezioni rivoluzionarie forlivesi finiscono isolati. Ancora una volta però gli eventi indirizzano e plasmano il destino di Mussolini.

Quella del 1911 è stata un’estate calda non solo da un punto di vista climatico. Nell’anno in cui l’Italia celebra il cinquantesimo anniversario della sua unità, il neonato quarto governo Giolitti pianifica l’espansione coloniale nel Nord Africa: l’Impero turco sta vivendo un grave periodo di crisi e le mire francesi e inglesi sulla sponda meridionale del Mediterraneo impongono allo statista piemontese l’azione.

Dopo settimane di preparazione, il 29 settembre l’Italia dichiara guerra alla Turchia. Le sinistre sono unite nel contestare il conflitto e nei giorni precedenti vengono organizzate in tutta Italia numerose manifestazioni. Ciononostante lo sciopero generale proclamato per il 27 settembre è un fallimento a livello nazionale, anche se a livello locale riscuote successo in diverse zone. Ma solo a Forlì assume le connotazioni di una vera e propria rivolta che le forze dell’ordine sono costrette a reprimere: in quei giorni i repubblicani di Nenni e Lolli e i socialisti rivoluzionari di Mussolini collaborano coinvolgendo nelle piazze migliaia di persone. L’intesa tra i due movimenti politici sembra continuare anche dopo la dichiarazione del conflitto e le autorità, allarmate dal probabile ripetersi di atti di violenza, sabotaggi e occupazioni, il 14 ottobre ordinano l’arresto dei tre capipopolo.

Il fatto ha grande risonanza sulla stampa di sinistra e il relativo processo è un caso nazionale. Il procedimento si apre il 18 novembre a Forlì e nel corso della prima udienza Mussolini pronuncia una difesa che suscita molta impressione nel pubblico: pur difendendosi dalle accuse, si assume la responsabilità per gli articoli scritti e ammette di essere favorevole al sabotaggio. E conclude con un discorso che strappa gli applausi dell’uditorio:

«Ebbene, io vi dico, signori del tribunale, che se mi assolverete, mi farete piacere, perché mi restituirete al mio lavoro, alla società. Ma se mi condannerete mi farete onore, perché vi trovate in presenza non di un malfattore, ma di un assertore di idee, di un agitatore di coscienze, di un milite di una fede che si impone al vostro rispetto, perché reca in sé i presentimenti dell’avvenire e la forza grande della verità”.

 

Tommaso Cerno, nato a Udine nel 1975, dal 2014 è direttore del «Messaggero Veneto». Firma dell’«Espresso» di cui è stato anche responsabile dell’attualità, ha condotto su Rai 3 la trasmissione D-DayPer Rizzoli ha pubblicato InfernoLa Commedia del Potere (2013; Premio Pino Zac per la Satira Politica di Forte dei Marmi 2013 e Premio Cavallini di Pordenone 2013).