Il Fascismo dimezzò i salari alle donne, menzogna antifascista

Il 1° dicembre il Partito democratico ha scritto sulle sue pagine social ufficiali di FacebookTwitter e Instagram che «il 20 gennaio del 1927 Mussolini dimezzò gli stipendi delle donne». Il post sui profili del Pd aggiunge: «Quando vi dicono che ha fatto anche cose buone ricordatevi di questo», oltre a riportare una frase di Ferdinando Loffredo (un economista e intellettuale fascista deceduto nel 2007) che parla di «indiscutibile minore intelligenza della donna» e di un suo ruolo da riservare «nella famiglia».


Il post è costituito da un’immagine e da un breve testo attribuito a Tobia Zevi, presidente dell’Associazione di cultura ebraica “Hans Jonas”, che in passato ha ricoperto incarichi politici presso la presidenza del Consiglio, durante il governo Gentiloni. Il 30 novembre Zevi aveva infatti pubblicato sulla sua pagina Facebook il falso comunicato ripreso poi parola per parola dal Pd.

Come vedremo nel dettaglio, non è vero che il fascismo, che anzi profuse una maggiore emancipazione femminile, limitò sistematicamente lo spazio pubblico delle donne e la loro autonomia.

Ma la notizia che a inizio 1927 fu approvato un provvedimento per dimezzare gli stipendi femminili è completamente priva di fondamento. Vediamo nel dettaglio perché.

Lo ripetono in tanti, ma la fonte non si trova

Se si fanno alcune ricerche in rete, si scopre subito che esistono riferimenti recenti alla dichiarazione pubblicata dal Pd. Ad esempio, in un articolo uscito il 21 gennaio 2020 su Il Messaggerosi legge che «il 20 gennaio del 1927, con un decreto-legge, il governo fascista intervenne sui salari delle donne riducendoli alla metà rispetto alle corrispondenti retribuzioni degli uomini». Una frase molto simile a quella dell’articolo uscito sul quotidiano romano è contenuta in un pezzo pubblicato il 20 gennaio scorso sul sito Fortebraccionews, intitolato “20 gennaio ’27, il governo fascista emana la legge che riduce i salari delle donne della metà rispetto agli uomini”.

In generale sono parecchi i riferimenti – pubblicati anche molto indietro nel tempo – a un provvedimento che, quel 20 gennaio 1927, avrebbe dimezzato gli stipendi femminili. Tra i vari esempi, c’è anche un saggio pubblicato nel 2010 dall’avvocato Guido Alpa sulla rivista Rassegna forense (Alpa è diventato famoso di recente per i suoi rapporti di lavoro con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte).

Andando indietro nel tempo, la storia del dimezzamento spunta anche in una nota a piè di pagina (p. 213) in un saggio di Helga Dittrich-Johansen pubblicato nel 1994 sulla rivista Studi storici della Fondazione Istituto Gramsci. «Con il decreto del 20 gennaio 1927 si stabilì che la retribuzione delle donne fosse abbassata alla metà dei corrispondenti salari maschili, già di per sé decurtati», sostiene il testo. Un riferimento alla questione si trova anche nella pagina italiana di Wikipedia, dedicata alla “Condizione femminile in Italia”, che recita: «Il 20 gennaio 1927 furono dimezzati per decreto i salari femminili rispetto a quelli degli uomini».

Sulla Gazzetta ufficiale del 20 gennaio 1927 – e di quelli immediatamente successivi – non c’è però nessun riferimento a un provvedimento approvato per decurtare della metà i compensi delle lavoratrici.

Altre versioni di questa notizia fanno riferimento alla stessa data e parlano di una decisione dei sindacati fascisti. Altre ancora di una decisione – non è chiaro di chi – leggermente diversa rispetto al dimezzamento, ossia di fissare i salari femminili al 50 per cento di quelli maschili.

Di interventi specifici di questo tipo, però, non sembra esserci traccia.

Abbiamo consultato l’archivio storico della Stampa, ma nelle pubblicazioni del 1927, e degli anni vicini, non abbiamo trovato titoli o riferimenti a un eventuale dimezzamento dei salari femminili. Marco Cuzzi, professore di Storia contemporanea all’Università Statale di Milano e studioso dei movimenti fascisti e neofascisti, ha confermato di non essere a conoscenza di provvedimenti di questo tipo. Anche Giuseppe De Luca, professore di Storia economica alla Statale di Milano, ci ha detto che non gli risulta l’esistenza di un provvedimento per dimezzare i salari delle donne durante l’epoca fascista.

Abbiamo consultato diversi libri di economia dedicati al fascismo (per esempio, La politica monetaria del fascismo, scritto da Mauro Marconi nel 1982 per Il Mulino, e La politica economica del fascismo, scritto da Salvatore La Francesca nel 1972 per Laterza), senza trovare traccia di singole misure circoscritte per tagliare della metà gli stipendi femminili. Abbiamo ottenuto lo stesso risultato leggendo il libro Mussolini ha fatto anche cose buone dello storico Francesco Filippi, edito nel 2019 da Bollati Boringhieri.

La maggioranza degli accademici forniscono una chiave di lettura alternativa: molto probabilmente il riferimento non è a un decreto specifico, ma agli effetti che le politiche economiche attuate sotto il fascismo hanno avuto sui salari dei lavoratori, e non solo di quelli delle donne. Qui il discorso si fa più ampio e merita di essere un poco approfondito.

Il calo dei salari

Partiamo da un primo elemento essenziale per capire quello di cui stiamo parlando. Dopo pochi anni dalla salita al potere, il regime fascista – con il ministro delle Finanze Giuseppe Volpi (1925-1929) – si trovò a dover affrontare un problema, retaggio della fine della prima guerra mondiale: la stabilizzazione del cambio della lira.

Con il cosiddetto “discorso di Pesaro” del 18 agosto 1926 Mussolini annunciò la «battaglia della lira» e il regime decise di fare di tutto per rispettare la cosiddetta “quota 90”: l’obiettivo insomma era quello di raggiungere un livello di cambio di 90 lire per acquistare una sterlina (all’epoca una delle due monete forti, ancorate all’oro, insieme al dollaro).

A luglio del 1925, spiega (p. 20) La Francesca in La politica economica del fascismo, una sterlina si scambiava con 145 lire, livello arrivato oltre 153 un anno dopo, nell’estate del 1926. «L’impegno assunto inequivocabilmente da Mussolini e le direttive successive producevano presto i loro effetti», scrive La Francesca. «Alla fine del 1926 la lira era quotata 18,15 rispetto al dollaro e 107,93 rispetto alla sterlina; nel giugno 1927 la quotazione per il dollaro era ferma a 18,15 e per la sterlina si attestava a 88,09». Verso la fine del 1927, il regime approvò dei provvedimenti legislativi che «non facevano che sancire la posizione raggiunta».

La scelta di “quota 90” fu presa, tra le altre cose, per motivi politici e di prestigio, ma per raggiungere gli obiettivi fissati era servita una riduzione dell’offerta monetaria, o detta altrimenti, una stretta deflattiva, con un abbassamento artificiale del livello dei prezzi. Come era stato raggiunto? Anche attraverso interventi di riduzione dei salari.

«Nel 1927, come effetto di “quota 90”, i salari vennero tagliati, ma tutti i salari, non solo quelli delle donne, e non certo della metà», ha spiegato Vera Negri Zamagni, professoressa di Storia economica all’Università di Bologna. «Tuttavia, poiché si abbassarono anche i prezzi, il risultato non fu un grave tracollo delle remunerazioni reali».

Secondo i calcoli di Negri Zamagni, tra il 1926 e il 1929, il salario mensile reale – o potere di acquisto – degli operai dell’industria era diminuito del 10 per cento circa, come risultato del taglio di circa 20 per cento dei salari, accompagnato da una caduta di circa il 10 per cento dei prezzi.

In conclusione
Il 1° dicembre il Partito democratico ha scritto sulle sue pagine social ufficiali che «il 20 gennaio del 1927 Mussolini dimezzò gli stipendi delle donne». Negli ultimi anni, questa frase si trova spesso citata in saggi, blog online o articoli di giornale, ma è impossibile trovare il riferimento normativo a supporto di questa affermazione.

Abbiamo contattato esperti e consultato libri dedicati al fascismo e alla storia economica di quel periodo, ma non abbiamo trovato traccia di una misura – come un decreto – che approvato in un giorno preciso abbia tagliato della metà i salari femminili.

Dunque l’affermazione antifascista riportata dal Pd è priva di fondamento.

È vero però che le politiche economiche attuate al fascismo, a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, portarono a tagli dei salari e al calo del potere d’acquisto, ma non a percentuali del 50 per cento, e non per le sole donne. Quest’ultime sono state sempre fortemente considerate dal fascismo all’interno del del lavoro.